“2030. Cosa stai facendo?” Il calendario Lavazza 2018 lo chiede a 17 uomini e donne che, con le loro azioni e i loro progetti, hanno lavorato nella direzione giusta: quella indicata dalle Nazioni Unite nel 2015 per salvaguardare il pianeta tramite 17 obiettivi cui dare concretezza entro il 2030. E loro, ritratti in bianco e nero da Platon, ribaltano la domanda a noi che li guardiamo, e ci chiamano a impegnarci a nostra volta per realizzarli, nelle piccole azioni del quotidiano. Ma chi sono queste icone globali individuate da Francesca Lavazza con Jeffrey Sachs, Special Advisor del Segretario Generale dell’Onu António Guterres? Sono personaggi famosi, ma non necessariamente per il motivo per cui sono stati scelti come ambasciatori della sostenibilità: come lo chef Massimo Bottura, l’attore Jeremy Renner, l’ideatore della Blue Economy Gunter Pauli, il cofondatore di Rainforest Alliance Daniel Katz o una superstar del tennis come Andre Agassi. Ma sono anche persone comuni che hanno messo in atto piccole rivoluzioni dal grande potenziale.
Tra questi c’è Francesco Faccin, scelto a rappresentare l'obiettivo 11 – città e comunità sostenibili – per la sua Honey Factory, l’arnia urbana commissionata da Marva Griffin nel 2015 in vista di Expo, installata nei giardini della Triennale di Milano per tre anni, riprodotta a Seoul in quattro esemplari (a cui ne seguiranno 20), richiesta in Giappone e in Germania e attualmente al vaglio di un progetto di ingegnerizzazione che la potrebbe portare in tutte le città del mondo. Lo incontro al Padiglione UniCredit per il lancio ufficiale del calendario.
Fa un certo effetto vedere la tua faccia in formato poster con due api (posticce) appoggiate su una guancia. Trasporta te, e la tua arnia, dentro a una dimensione più alta, trasmette il potenziale della Honey Factory.
Devo ammettere che sono ancora un po’ scosso per essere stato scelto insieme a personaggi di questo calibro. Sulla sostenibilità si può lavorare a varie scale: da quella di Boyan Slat con il suo il progetto di recupero della plastica negli oceani, che necessita di milioni di dollari di finanziamenti, a quella piccola della mia arnia, che richiede un ridotto sforzo economico ma che ha una grande ricaduta sulle persone che vivono principalmente in contesti urbani.
Il calendario Lavazza è l’ultima di una serie di lente conquiste di visibilità del tuo progetto. Pensi che siano segnali di un cambiamento di sensibilità verso questi temi?
Solo pochi anni fa un progetto del genere sarebbe morto dopo la sua inaugurazione. Ora continuano a verificarsi iniziative spontanee che sono un indice di interesse verso un modo di fare design che tocca temi globali. Siamo in tanti ormai a lavorare secondo queste modalità, serve solo una maggiore sensibilità da parte dell’industria, dei governi e delle ONG. La forza del design è che rende fisica una tematica, dà concretezza.
Come è nata la Honey Factory?
Sull’onda di una visione, in modo inaspettato. Non dalla volontà di fare un progetto commerciale. Avevo visto la foto di impollinatori cinesi su una rivista. In Cina ci sono enormi aree dove l'ape è già estinta – a causa dell’uso massiccio di pesticidi – e gli uomini devono impollinare a mano i fiori. Le ricadute dell’estinzione delle api non sono solo bucoliche, ma anche politico-economiche: il 75% dell’agricoltura industriale dipende ancora oggi dalle api e dall’impollinazione. Le api minacciate scappano dalle campagne e arrivano in città, dove trovano un ambiente meno ostile, una situazione assurda e significativa di questa “nuova natura” un po’ distopica.
Si può dire che alla base del tuo progetto ci sia un atteggiamento ecologista?
Non del tipo che vuole cercare di salvare la natura, che trovo paradossale e antropocentrico, assimilabile al tentativo di tappare un buco causato da quel meteorite che è l’uomo. Dobbiamo accettare di vivere in un mondo nuovo distopico e cercare soluzioni alternative senza porre rimedio a quanto si è distrutto, perché non è possibile. Non credo che nel 2030 saremo tornati in armonia con la natura. Dovremo cercare nuove modalità di integrazione, come sostiene il filosofo americano Timothy Morton che riassume il suo pensiero con il concetto di dark ecology.
Vedi il design come un aiuto verso la transizione a un nuovo mondo?
Sicuramente. Ma deve anche essere lo strumento tramite il quale porre l’attenzione su certi temi. La Honey Factory non è nulla di straordinario, tutti nel mondo stanno lavorando sull’apicoltura urbana: sono tante le piccole arnie che si trovano su balconi e nei giardini, a Londra ce ne sono oltre 5.000. Il suo plus è probabilmente essere riuscita a mantenere un collegamento con una serie di messaggi astratti e a trasmetterli. In genere, la prima domanda che mi fanno riguarda l’estinzione delle api, non come è fatta la mia arnia. Questo mi piace molto.
Sarebbe anche importante ridefinire il concetto di design e le sue modalità di applicazione nelle scuole.
È un passo fondamentale. Io lo sto facendo nel corso di progettazione che tengo alla Libera Università di Bolzano. Dedico ogni semestre a un elemento: acqua, terra, fuoco e aria, che sono il punto di partenza per ideare degli oggetti. Dopo i primi momenti di disorientamento per questo approccio non convenzionale, i miei studenti sono riusciti a mettere a ideare progetti pazzeschi.
La consapevolezza che il design stia rivestendo un ruolo cruciale nella configurazione di un nuovo rapporto con la natura viene anche da eventi come il Lexus Design Award 2018, che si intitola C0-, o dal tema scelto per la 22 Triennale che si aprirà nel 2019 – Broken Nature – che la curatrice Paola Antonelli ha annunciato tratterà anche di apicoltura urbana.
Sono tutti segnali di conferma. La trattazione della Antonelli comprenderà le accezioni meno “classiche” del design, racconterà della sua integrazione con il corpo umano, di materiali organici... ambiti lontani dal mio, ma estremamente attuali e ricchi di potenzialità. Considerato l’interesse che ha espresso per l’apicoltura mi auguro che si decida di prolungare la permanenza della Honey Factory in Triennale. Anche perché sta svolgendo un ruolo tanto importante quanto inatteso: da due anni, ricercatori universitari della facoltà di Veterinaria stanno usando le api morte che rimanevano alla base dell’arnia come materiale di studio per il biomonitoraggio dell'aria di Milano – analizzano le polveri sottili e i materiali pesanti che si depositano sul loro pelo. I dati si sono rivelati attendibili e molto meno costosi da ottenere rispetto a quelli forniti dalle centraline di biomonitoraggio dell’Arpa. Con il Comune e l’università stiamo cercando di attivare un programma per installare altre arnie in città mentre è in fase di completamento una pubblicazione scientifica su questi studi che verrà veicolata in tutto il mondo. Come una palla di neve lanciata dalla cima di una montagna, la Honey Factory si potrebbe trasformare in una valanga.