Shiro Kuramata, pur essendo scomparso prematuramente nei primi anni Novanta, ha lasciato un segno indelebile nel mondo del progetto, producendo un’eredità del suo lavoro tanto eloquente quanto inafferrabile. Quello che Kuramata immaginava non era solo una vita fatta di spazi e oggetti costruiti con la stessa impalpabile materia dei sogni, ma ogni volta che progettava lo faceva per un mondo di relazioni inattese, pensando a spazi non disegnati con la materia ma con magiche metafore e con invenzioni sempre nuove. Con la trasparenza e con il colore produceva uno spostamento di senso capace d’incidere sul rapporto tra essere umano e materia (sempre più impalpabile nel procedere della sua carriera) intercettando le energie di una società in profonda mutazione.
Lo stesso Gio Ponti, che osservava con curiosità il giovane Kuramata venuto in Europa a presentare il suo lavoro, scriveva che prima ancora di osservarne gli oggetti, uno per uno, si aveva l’immagine di un mondo nuovo per cui erano stati pensati [1]. Un mondo che assomigliava al Giappone uscito dalla guerra e che stava trasformando la sua tradizione millenaria in un paesaggio fisico e culturale abitato da migliaia di tribù urbane in metropoli senza fine. Un Paese dove nuovi nomadi si abituavano a vivere in città cresciute a dismisura su strati di messaggi, utopie e inafferrabili illusioni, proprio come sottolineava l’amico Ettore Sottsass [2] che per lui ha sempre avuto una grande attrazione, tanto da volerlo raccontare sulle pagine di Domus ogni volta che un nuovo progetto veniva realizzato. Per lui la “visione di Shiro” non poteva rappresentare uno stile, ma era esattamente il tentativo di descrivere lo stato inafferrabile e misterioso di quella esistenza contemporanea.
La mostra che Domus organizzò durante il Salone del Mobile del 2003, nello spazio Forcella di Milano curata da Francesca Picchi e allestita da James Irvine, dal titolo “Kuramata’s Tokyo”, cercava proprio di raccontare questa visione attraverso i contributi di progettisti che lo avevano conosciuto: Issey Miyake, Tadao Ando e John Pawson. Un racconto fatto di frammenti che, attraverso i prodotti d’arredo e le foto di Todd Eberle, tentava di ricostruire ciò che era rimasto della sua opera. Infatti la natura dei suoi progetti è sempre stata transitoria proprio perché legata a una metropoli in continua evoluzione, dove ogni interno veniva sostituito da quello successivo senza soluzione di continuità, ma nonostante questo processo incessante, le tracce che ogni lavoro lasciava rivelavano col passare del tempo straordinarie qualità sempre più evidenti. Basti pensare che per alcuni negozi di Issey Miyake non si era riusciti neanche a stabilirne un numero esatto per la velocità con cui venivano rielaborati, ma la loro potenza visiva ha contribuito a rendere percepibile la grande sperimentazione che il brand stava compiendo nella moda. Lo stesso Kuramata dichiarava che progettare era un atto di transitorietà e in questo senso per lui il progetto era molto simile a Tokyo: “dove non c’è niente di concreto o eterno.” [3]
Al contrario di quanto si pensi, i suoi progetti sono stati prevalentemente interni elaborati da un diario personale ed eterogeneo dove la materia e le forme hanno allestito una dimensione senza tempo, una specie di limbo fatto di immagini poetiche e relazioni effimere. Il controllo dello spazio, la sofisticata scelta dei colori, il senso della luce, la potenza visiva dei materiali come la rete metallica, il vetro e l’acrilico, non sono stati solo dei codici formali di un nuovo linguaggio ma hanno raccontato l’ambiguità della nostra società contemporanea attraverso la loro natura illusoria. La boutique Edwards di Tokyo, i negozi di Issey Miyake, il Laputa Restaurant di Shinagawa, lo Spiral Shop di Tokyo, sono fatti da uno sciame di piccoli dettagli tutti perfetti e quasi mai replicabili, che concorrono a creare una tensione attiva e poetica lavorando sulla stimolazione di chi guarda e arrivando a risvegliare immagini nel profondo [4], proprio come amava ricordare il connazionale architetto Tadao Ando.
Shiro Kuramata sembra aver anticipato la nostra nuova natura digitale, immaginando un futuro lontano dal grigio acciaio che la fantascienza e la società si sono sempre prefigurate, restituendo leggerezza e sostanza a un presente in totale assenza di gravità, soprattutto ideologica. Proprio per questo Ettore Sottsass si rifiutava di considerarlo semplicemente un “designer” o un “artista” ma un uomo celeste che si muoveva nell’aria come uno spirito limpido, che raccoglieva echi sottili di una grande metropoli affannata e sapeva trasformare la luce del sole in una luce silenziosa proveniente dai venti della galassia [5].
È per questo l’eredità di Shiro Kuramata non è solo in quel poco o nulla di costruito che rimane, ma nella sua capacità di immaginare spazi dove le trasparenze e le forme non appartengono a nessun luogo in particolare, ma come ricordava lui stesso “Eppure esistono!”.
1. La boutique Edwards a Tokyo, in Domus 489, dicembre 1970, p. 27.
2. Kiyotomo Sushi Restaurant, in Domus 779, febbraio 1996.
3. Domus 858, aprile 2003.
4. Tadao Ando, in Domus 858, aprile 2003, inserto p. 14.
5. Domus 788, dicembre 1996, pp. 40-41.