Cosa offrono le esperienze educative straniere rispetto a quelle italiane ed esiste invece secondo te qualcosa rispetto al quale la formazione italiana custodisce ancora il segreto?
Domitilla Dardi: All’estero si trova più apertura alla sperimentazione in campi che non hanno un risvolto immediato sul mercato corrente. Viceversa in Italia s’impara ancora molto bene cosa voglia dire lavorare all’interno del concetto di “limite”, che è sempre in bilico tra superamento e vincolo; dipende tutto da come lo si interpreta.
Chiara Alessi: E rispetto alle esperienze curatoriali dove si misura la differenza?
Domitilla Dardi: In Italia abbiamo un’esperienza di curatela molto legata all’idea e al concept. Le mostre dei curatori italiani mi sembra siano sempre guidate da un tema portante e meno dalle necessità di conservazione e tutela delle collezioni. All’estero sono spesso legati a questi ultimi aspetti: la loro grande esperienza in termini di grandi collezioni è uno straordinario patrimonio, ma al tempo stesso un termine col quale confrontarsi senza poterne prescindere. Al MAXXI per esempio non abbiamo collezione di Design, ma lavoriamo su coproduzioni e committenze e questo può essere molto stimolante, sia per chi propone che per chi accetta la sfida del progetto ex-novo.
Chiara Alessi: In che modo la mostra di Pippo Ciorra, “Erasmus Effect”, c’entra con questa?
Domitilla Dardi: Il concept di “Erasmus Effect” ha aperto la strada a un tema portante del museo, quello sul lavoro degli Italiani all’estero, che darà delle filiazioni dirette come nel caso di “Design Destinations”.
Chiara Alessi: Che bello vedere che la mostra è stata patrocinata dalla città di Eindhoven. Credi che qualche città italiana troverebbe interesse o valore nello sponsorizzarne una analoga all’estero?
Domitilla Dardi: Sarebbe meraviglioso! Speriamo che questa mostra possa attivare un circolo virtuoso. I nostri amici olandesi hanno molto da insegnarci in tal senso.
Chiara Alessi: Come sono rappresentate le sponde italiana e olandese nei progetti in mostra? Sono riconoscibili ancora come esperienze individuali o si fanno metafora universale?
Domitilla Dardi: In realtà Italia e Olanda sono ben presenti come direzioni: gli oggetti contenuti nella gonna di Lanzavecchia sono pezzi di memoria personale legati ai luoghi, così come le diverse prospettive di visione esemplificate dagli specchi di Gatto. Ma la loro è anche un’esperienza di apertura alla dimensione internazionale. Quando ho chiesto loro se si sentivano più “italiani” o “olandesi”, quasi tutti mi hanno risposto che si sentivano “europei” o, comunque, aperti all’internazionalità. Questo è un fenomeno generazionale che si afferma per la prima volta, nessuno dei loro maestri reali o putativi penso mi avrebbe dato questa risposta. Avrebbero scelto una precisa appartenenza geografica.
Chiara Alessi: Non è raro però che molti degli italiani che lavorano all’estero portino ancora il dna italiano nei loro progetti, specialmente nell’ammiccamento a certi localismi e a produzioni tradizionali. Assenti invece le aziende?
Domitilla Dardi: L’affezione è mentale ed emotiva per definizione. Credo quindi sia naturale per loro rivolgere questo legame più ai luoghi e alle tradizioni delle loro terre d’origine, che alle aziende. Anche perché molti non hanno avuto (ancora) occasione di entrare nella vita di un’azienda storica italiana. Ma questo non vuol dire assolutamente un rifiuto, anzi. L’auspicio è che gli imprenditori italiani più illuminati sappiano cogliere il talento di questi autori il prima possibile e creare un dialogo per trovare insieme nuovi modelli e paradigmi produttivi.
Chiara Alessi: Ci raccontate che progetto portate in questa mostra?
Giovanni Innella: Il Cambiavalute è un'installazione progettata con Tal Drori, che permette ai visitatori di stampare sulle proprie banconote, convertendole in una nuova valuta dal valore inestimabile, nullo, o identico alla banconota di partenza. Chi lo sa. Questa valuta celebra il valore dell’esplorazione di un nuovo contesto, evidenziando il passaggio in un territorio nuovo.
Eugenia Morpurgo: Re-tools presenta una serie di utensili per costruire realizzati in due ex-fabbriche riconvertite, una olandese e una italiana. Questi utensili raccontano come dalle macerie di un sistema produttivo passato stia rinascendo una cultura del fare condiviso e locale, che non si limita a produrre beni di consumo, ma elabora, produce e diffonde idee e nuovi modi di vivere.
Maurizio Montalti: NASCO/STO è un bastone da passeggio per il giovane progettista che, oltre a svolgere la più usuale funzione di supporto e aiuto nell’esplorazione di ambienti ostili, funge da veicolo per il “contrabbando” di esperienze sperimentali e conoscenze aliene e clandestine e la dispersione di un virus positivo ed essenziale, pronto ad infettare l’immobilità del presente: la trans-disciplinarità.
Formafantasma: È una installazione composta da una coperta in Mohair (tessuta dal tessile museum di Tilburg in Olanda) disegnata come una cartolina gigante metaforicamente inviata da Asmara in Eritrea, che raffigura vari esempi dell’influenza del colonialismo Italiano nel ‘disegno’ della città e un distributore di cartoline turistiche che mescola immagini di Eindhoven (dove abitiamo), della Sicilia (da dove viene Andrea), di Vicenza (città natale di Simone) e di Asmara. È un modo per relazionarsi alla storia passando attraverso il privato.
Gionata Gatto: Ho usato il tema della prospettiva per raccontare due approcci al Design che, seppur partendo da presupposti simili, riflettono contesti spaziali, culturali e sociali diversi. I riferimenti sono artistici e prendono spunto dalle differenze tra la pittura rinascimentale italiana e quella fiamminga, sfruttando un’opera di Van Eyck come punto di partenza per una riflessione progettuale.
Salvatore Franzese: Il mio porogetto parla di distanze e destinazioni intraprese durante un viaggio personale, alla ricerca di una propria identità. Nel mondo del design.
Francesca Lanzavecchia: Volevo disegnare bagagli che fossero una seconda pelle, una estensione diretta dei miei pensieri e delle mie esperienze, da qui sono nate: Le pollicine, scarpe ambigue che mentre stai camminando verso una meta, lasciano un segno che indica la direzione opposta. La mia indecisione fra andare e restare. E poi Lungo come un viaggio: una gonna è il bagaglio più leggero che posso immaginare, davanti, una mappa ricamata; dietro le tasche con oggetti simbolo della mia vita, i luoghi in cui ho vissuto, persone che ho incontrato le cose che ho visto e imparato.
Chiara Alessi: Quanto ha a che fare il tuo lavoro con l’Italia? E con l’Olanda?
Giovanni Innella: Ho lasciato l'Italia pensando di aver bisogno di sviluppare una mia "voce", son partito dall'Olanda cercando qualcuno con cui dialogare. Di solito, nel mio lavoro, gli interlocutori sono coloro i quali forniscono un contesto. Se il mio interlocutore desidera avere una conversazione sull'Italia, io provo ad elaborare e condividere pensieri inerenti al contesto proposto. Se il contesto è il Burkina Faso, cambiano i miei pensieri, non il mio processo. Per rispondere alla tua domanda, il mio lavoro non ha a che fare con un posto in particolare.
Eugenia Morpurgo: Il progetto Retools, per esempio, è stato realizzato in parte in Italia, a Roma, all'interno di Officine Zero, ex officine RSI (Rail Service Italia) adibite un tempo alla manutenzione dei treni notte che un'ampia coalizione di operai cassaintegrati, studenti, lavoratori precari e autonomi ha occupato impedendo che un patrimonio di esperienza tecnica di pubblica utilità venisse cancellato dall’ennesima speculazione edilizia. Un’altra parte del progetto è stata realizzata in Olanda ad Eindhoven, città nel sud del paese e caso emblematico per quanto riguarda progetti di riconversione di zone ex-industriali. Il confronto tra questa realtà affermata e la realtà italiana di Officine Zero mi ha dato la possibilità di presentare una riflessione sulle diverse politiche nazionali che affrontano i temi della gestione di spazi abbandonati, riconversione dei sistemi e dei luoghi di produzione e sul ruolo dello stato nei confronti dei settori creativi.
Maurizio Montalti: Il mio lavoro (in termini di contenuti) non ha a che fare necessariamente con un paese o con un altro, ma tratta generalmente di tematiche più estese, con ripercussioni possibili in ogni parte del mondo e destinato a raggiungere la sensibilità di individui di qualsivoglia nazionalità. Comunque l’Olanda è il paese che, come struttura, mi supporta e mi permette di portare avanti il mio lavoro. Ciò non sarebbe purtroppo possibile in qualsiasi altro paese.
Formafantasma: Alcuni dei nostri lavori hanno a che fare con l’Italia in modo molto diretto come per esempio Moulding Tradition, Colony e De Natura Fossilium. Nonostante questo non crediamo che il lavoro debba essere letto necessariamente da questa prospettiva. Per fare un esempio, quando abbiamo guardato alla ceramica folcloristica Siciliana e alle teste di Moro in connessione ai flussi migratori dall’Africa all’Europa in epoca medievale e nella contemporaneità, il nostro intento principale era capire i meccanismi che trasformano gli oggetti da strumenti funzionali a simboli per la rappresentazione di una cultura locale o nazionale. La nostra educazione deve molto ad aver studiato al Master alla Design Academy di Eindhoven. Abbiamo deciso di spostarci qui perché abbiamo riconosciuto nel modo di lavorare di alcuni designer olandesi la voce di una generazione o di un gruppo che ci assomigliava. Nel tempo abbiamo anche capito le differenze.
Gionata Gatto: L’Italia è costituente fondamentale del mio modo di lavorare e di guardare al progetto. Ho iniziato lo IUAV senza nemmeno sapere cosa significasse la parola “design", ne sono uscito con una formazione solida e profonda ma al contempo desiderosa di incontrare un linguaggio personale che mi permettesse di interagire di più con contenuti sociali, materiali e processi produttivi. In Olanda ho avuto modo di osservare un approccio diverso al progetto. Il solo fatto che esistesse in quegli anni un Master - peraltro unico in Europa - intitolato Man & Humanity, comunica bene come la cultura progettuale olandese, perlomeno nelle intenzioni, avesse il desiderio di ibridare conoscenze diverse, offrendosi come "spazio di sperimentazione” progettuale libero da vincoli economici rispetto all’industria.
Salvatore Franzese: Noi siamo il risultato di dove, quando e come abbiamo vissuto la nostra vita. Per quanto mi riguarda, l'Italia e l'Olanda, sono i due paesi che influenzano di più il mio modo di vivere e il mio modo di fare.
Francesca Lanzavecchia: Con l’Italia molto. Credo che la riuscita di un progetto dipenda in gran parte dall'abilità di chi lo realizza e sono tornata anche per giocare nelle migliori officine del mondo con esperti e abilissimi artigiani. Essere in Italia non è pero facile per un giovane studio e sono felice di avere un piede anche a Singapore. L'Olanda e l'accademia di Eindoven in particolare sono stati fondamentali nella mia formazione: il primo passo verso un'autonomia di pensiero e di lavoro. A volte rimpiango non essermi fermata un po' più a lungo in Olanda, sarà stata colpa della pioggia?
Chiara Alessi: Esiste un design nazionale? E, se ha ancora senso parlarne, perché?
Giovanni Innella: ll design non è una forza indipendente, ma un prodotto del contesto politico/economico che lo genera. Oggi, le dinamiche politiche ed economiche corrispondono sempre meno ai confini nazionali. Norme e istituzioni sono condivise tra più stati, coinvolgendo aree geografiche più diffuse. Dovendo scegliere tra spazio e tempo, credo che nel design contemporaneo il tempo sia un fattore più influente. Se ci si sposta anche di pochissimo sulla linea temporale, si notano cambiamenti rilevanti, spostandosi dall'Olanda all'Austria (per dirne due a caso), le differenze sono meno marcate e più casuali.
Eugenia Morpurgo: Non credo abbia più senso parlare di design nazionale. Ciò che esiste è un'eredità storica di un design nazionale, ma la realtà del design contemporaneo è una realtà globale. L'eredità storica nazionale è quel bagaglio identitario che ci contraddistingue come individui creativi all'interno di collaborazioni che oramai sono quasi sempre internazionali. Collaborazioni che esplorano e perseguono temi d'interesse e modalità di lavoro specifiche, al di là della provenienza geografica dei singoli partecipanti.
Maurizio Montalti: Non credo esista un modello così largamente diffuso da poter consentire l’utilizzo di un termine generale che lo definisca come “design nazionale”. Esiste piuttosto in Italia, a differenza di altrove, una forte e radicata cultura del progetto, su cui è necessario non appoggiarsi, ma utilizzarla per lo sviluppo di nuovi paradigmi progettuali, che si basino e al contempo prendano le distanze dagli illustri modelli del passato, con l’obiettivo di creare un’innovazione reale ed attuale.
Formafantasma: La discussione sul design nazionale è pericolosa a volte, molto utile altre. A livello nazionale è importante che una certa attività se rappresenta un valore aggiunto per un luogo, venga riconosciuta. Come strumento di marketing sappiamo come funzioni ancora. Personalmente essendo italiani ma vivendo e lavorando in Olanda siamo dei bastardi a cui non interessa appartenere ad una o l’altra parte, né ci interessa che il nostro lavoro venga letto da una prospettiva nazionale. Per concludere crediamo che a lungo termine la nazionalizzazione di una disciplina implichi la definizione a volte inconscia di canoni o stereotipi che possono limitarne l’evoluzione.
Gionata Gatto: Identificandosi in spazi, realtà culturali, territoriali ed industriali diverse, ogni nazione rappresenta uno spazio unico con cui ogni progettista potrebbe relazionarsi. Questo però richiederebbe di rivalutare l’aspetto della storicità, il ruolo della tradizione, e anche di dare una priorità locale al nostro modo di consumare beni e servizi.
Salvatore Franzese: Io penso ci sia sempre in design nazionale. Ma per la mia esperienza non importa da dove vieni importa quello che fai.
Francesca Lanzavecchia: Non credo esista un design nazionale se parliamo di stile... penso invece che quello che dovrebbe essere nazionale è la cultura del progetto (che temo in molti casi si stia perdendo). La nostra tradizione storica e artistica è onnipresente e ingombrante ma fa si che la maggior parte dei progettisti italiani siano in grado di nutrirsi di questa cultura umanistica e tradurla in progetto nuovo.
Domitilla Dardi: Più che un design nazionale penso esista una forma mentis italiana nell’affrontare il progetto. Un modo analitico, tecnico e concreto di risolverne i problemi aprendosi alla contaminazioni tra i diversi campi del sapere, compreso quello della visione.
Chiara Alessi: Una destinazione da prendere per il design?
Giovanni Innella: Sarei curioso di vedere i miei colleghi dialogare maggiormente con l'industria, senza le interferenze del marketing. Io andrei in quella direzione.
Eugenia Morpurgo: Continuare a mettere in discussione i sistemi di riferimento esistenti: culturali, etici e produttivi. Aprire il progetto a collaborazioni sempre più interdisciplinari abbattendo la definizione di quei ruoli che un tempo delineavano gli attori del mondo del design: produttore, creativo e consumatore.
Maurizio Montalti: La via della trans-disciplinarità, e più specificatamente la collaborazione e contaminazione attiva fra campi applicativi apparentemente distanti.
Formafantasma: Corea del Nord? Dovrebbe essere interessante vedere un posto praticamente senza pubblicità o luci di notte. Oppure Brasilia per capire l’entusiasmo per il futuro tipica del modernismo.
Gionata Gatto: Penso che questo periodo storico richieda designer interessati - e capaci - di connettere prodotti a servizi di diverso tipo. Ad esempio, in Italia, l’industria del design potrebbe guardare con attenzione a questo tema ed iniziare ad esaminare le possibilità che aprirebbe.
Francesca Lanzavecchia: Immaterialità e design for all.
Domitilla Dardi: Non un luogo, ma una convinzione: quella che un grande progetto non ha a che fare con la tipologia o la forma in sé, ma con le idee e la determinazione a realizzarle.
Chiara Alessi: E un destino da evitare?
Giovanni Innella: L'autoproclamazione del design come forza politica.
Eugenia Morpurgo: Non credo ci sia alcun destino da evitare. Proprio nella pluralità delle realtà e modalità nelle quali il mondo del design si esprime sta la sua ricchezza. Ogni progetto può essere fonte di ispirazione o stimolare una critica costruttiva.
Maurizio Montalti: La superficialità esclusivamente formale e priva di reali contenuti.
Formafantasma: Su questa non sappiamo rispondere, forse svegliarti e scoprire che hai speso troppi anni in un lavoro che non ti piace?
Gionata Gatto: Ho la sensazione che ultimamente venga posta moltissima attenzione alla ricerca nel design, soprattutto a quella multidisciplinare, senza che questa però approdi a risultati che si possano considerare fruibili. Credo che le due cose debbano invece progredire simultaneamente, concedendosi lo stesso spazio.
Salvatore Franzese: Un destino da evitare è non fare ciò che ami di più.
Francesca Lanzavecchia: Stampanti laser che producono oggetti inutili, un mondo di designer-wannabe che sono solo “landfill designer”.
Domitilla Dardi: Assecondare un mercato che chiede la replica del già fatto per paura dell’imprevedibilità che si associa al nuovo. Se l’Italia degli anni Cinquanta non avesse investito sul nuovo non sarebbe mai nato un design italiano.
Fino al 5 ottobre 2014
Design Destinations
MAXXI, Roma