Insieme con Rodrigo Rodriquez, ex direttore generale e ex amministratore delegato di Cassina e oggi, tra l’altro, vicepresidente di Flos, proviamo a far luce sul caso Montezemolo/Poltrona Frau – Haworth, giustamente in cima alle pagine di economia e finanza delle ultime settimane.
Il coinvolgimento emotivo nella storia di un’azienda familiare (Rodriquez ha sposato Adele Cassina, figlia di Cesare) da cui è fuoriuscito negli anni Novanta, non complica una ricostruzione lucida della vicenda: Rodriquez è affilato, concentrato, anche quando racconta di aneddoti, attento a stare attento a non trascurare i contraltari della vicenda.
La sua è una voce fuori dal coro della stampa generalista, ma dentro fino al collo in questa storia del design italiano.
Chiara Alessi: Ci aiuti a ricostruire la situazione delle aziende del Gruppo Poltrona Frau nell’ultimo decennio? Forse qualcuno non se lo ricorda, ma per esempio, la tua Cassina era in parte già controllata da un gruppo francese al momento dell’acquisizione di Montezemolo.
Rodrigo Rodriquez: Intanto chiariamo quali sono queste aziende, cedute dieci giorni fa al colosso americano dei mobili per ufficio Haworth. Il gruppo Poltrona Frau, di cui Moschini è presidente e Luca Cordero di Montezemolo consigliere a partire dal 2003 quando Charme acquisisce la società (mentre il figlio Matteo è vicepresidente di Poltrona Frau e amministratore delegato di Charme), a febbraio possedeva, a parte il marchio Poltrona Frau, altre due note aziende del mobile italiano, cioè Cappellini (acquisita nel 2004 insieme a Gufram, poi venduta nel 2011) e Cassina (acquisita nel 2005 con Alias e Nemo). Quest’ultima negli anni Novanta aveva già venduto una golden share ai francesi di Strafor, perché l’idea era di aprire la partecipazione a un terzo che, nel caso di questioni irrisolte tra me e mio cugino potesse aiutarci a superare l’eventuale impasse. Quindi Cassina, a livello azionario, era già in parte estera – a essere precisi, quando Charme è entrata in Cassina la proprietà era 80% di Fimalac, finanziaria francese cui la Strafor Facom aveva venduto le proprie azioni, e il 20% della famiglia di Franco – e, quando venne acquisita da Charme, aveva anche già maturato una consapevolezza per così dire “finanziaria”, con la direzione di Sandro Maggini. Infine, nel gruppo Frau, già dal 2001 c’era anche il marchio Thonet. La stampa quando parla di Frau/Charme, ricorda sempre solo Poltrona Frau, ma si dimentica di citare i casi degli altri storici marchi del design italiano che fanno parte della società. In totale oggi il gruppo conta 900 dipendenti e un fatturato di circa 250 milioni. Nel 2006 entra in borsa. Chiaramente quando quoti un’azienda in borsa cambiano i parametri e i margini in cui devi rientrare: le nostre aziende italiane del design però non sono nate per quegli standard, forse anche per questo Montezemolo, imprenditore acuto e lungimirante, ha deciso di vendere. Probabilmente, ha pensato che il Gruppo Poltrona Frau non fosse più parte del suo core business (considerazione che potrebbe avere ispirato anche la vendita, il giorno prima, della Octo Telematics ai russi di Renova). Ciò detto, trovo doveroso guardare con rispettosa attenzione al modo in cui Haworth riuscirà a esplicitare il potenziale ancora presente nelle aziende acquistate, nei loro marchi, nelle rispettive culture d’impresa.
Chiara Alessi: Questa affermazione, con questi verbi al futuro, riecheggia le parole di Snaidero, presidente di FederlegnoArredo, di qualche giorno fa: “Un fatto importante che spingerà la crescita del made in Italy a livello internazionale e rafforzerà la presenza in Italia di una produzione di altissimo profilo”. Sembra quasi un pronunciamento apotropaico, per scongiurare il rischio che si verifichi esattamente il contrario. O credi che l’operazione Haworth davvero possa aiutare il marchio?
Rodrigo Rodriquez: Sicuramente è un fatto positivo che quell’azienda sia già nel settore, provenga da una sponda di competenze specifiche. E poi non dimentichiamo che cosa rappresenta in questo senso il distretto del Michigan, che più di sessant’anni fa ha accolto alcuni nobili e coraggiosi profughi del nazismo, tra i quali proprio Knoll che da allora hanno contribuito alla costruzione di un gusto e un’attenzione al design anche in America. Haworth s’inserisce in questa storia. La stessa celebre mostra “Italy, The new domestic Landscape”, tante volte citata, nasce anni dopo proprio nel solco di quell’atmosfera, quando curatore del MoMA era Emilio Ambasz, mostra che ebbe il merito di far conoscere il design italiano oltreoceano ma anche di spostare il baricentro della percezione dal prodotto ai beni di consumo durevoli che incorporano innovazione migliorano la qualità della vita.
Chiara Alessi: Venendo a Haworth, parliamo di una multinazionale di 6.000 dipendenti (la metà dei quali lavora in USA) e da 1,4 miliardi di fatturato, che ha già una consuetudine con il design italiano (avendo acquisito nel 1993 la Castelli) e che, pur appartenendo al 100% alla famiglia, è gestita da un italiano, l’amerikano, Franco Bianchi (che per la riuscita di quella transazione, a sua volta, era stato assunto da Castelli come consulente). Una domanda provocatoria: è quindi il fatto che sia un’azienda americana a renderci antipatica quest’acquisizione? E perché la gestione italiana di per sé dovrebbe garantire invece una maggior tutela del marchio?
Rodrigo Rodriquez: Qualche anno fa Montezemolo è stato nominato “messaggero del made in Italy” nel mondo. Se posso permettermi un’osservazione garbatamente critica, quella missione avrebbe dovuto consistere nel potenziamento dell’immagine italiana all’estero per ingolosire gli stranieri a comprare i nostri prodotti, non i nostri progetti o i nostri marchi. Tra le ragioni per cui ho lavorato in prima linea nell’internazionalizzazione di Cassina, v’era l’obiettivo di spostare il rapporto fra vendite in Italia e all’estero a favore di quest’ultimo. Nel 1973 il fatturato di Cassina era 70% Italia 30% estero; nel 1990, quando lasciai la Cassina, i numeri si erano invertiti. La globalizzazione dei marchi acquisiti cui ha fatto cenno il CEO Franco Bianchi ne promette ulteriore rafforzamento a livello internazionale. E non a caso già nel 2011 era stato siglato da Matteo un accordo da 20 milioni di euro con Haworth, per la distribuzione nel segmento ufficio dei prodotti Frau “sinergici con quelli del marchio USA”.
Chiara Alessi: A proposito delle scelte distributive (che poi nel caso dei marchi del design, spesso sono strettamente interconnesse con quelle comunicative…) l’impressione che si ha guardando proprio al catalogo/presentazione del distributore Haworth è di una specie di “americanizzazione” (pur legittima, s’intende) di questi marchi, per cui nel caso di Cassina, per esempio, viene enfatizzata la collezione Le Corbusier, probabilmente più “penetrante” in quel mercato attento ai grandi nomi, a discapito però forse di un pluralismo linguistico, che è sempre stata la vocazione di Cassina, o sbaglio? E questo avveniva ben prima dello scorso 5 febbraio…
Rodrigo Rodriquez: In effetti la distribuzione selettiva che ha permesso a queste aziende di mantenere una coerenza tra azienda e mercato, era già stata modificata da politiche distributive meno rigorose. Cassina è sempre stata un’azienda al servizio di molti linguaggi, per una scelta politica precisa, nutrita probabilmente anche dal sangue arterioso delle collezioni dei maestri, coi loro diversi codici. Per Cassina, per decenni, questo ha coinciso con una leadership che aveva come elemento forte quello di offrire al mercato prodotti-archetipi, contribuendo, a vantaggio del settore d’arredo, alla formazione del gusto dei consumatori. E questi devono essere stati per forza elementi che hanno giocato a favore nell’interesse del gruppo Frau ad acquisire l’azienda, anche se nella gestione poi non sempre sono stati valorizzati come punti forti. Invece nella presentazione dello scorso novembre a Tolentino, chiamato “investor’s a day presentation” e organizzata dal Gruppo, la collezione Cassina era molto ben valorizzata.
Mi auguro che un colosso storico nel settore, come Haworth, sia in grado di premiare questo catalogo, senza semplificazioni e riduzioni, con un approccio più sostanziale e meno cosmetico, così come, di utilizzare al meglio anche il valore del talent scouting di Giulio Cappellini che entra con la sua azienda a far parte di questa nuova realtà.
Chiara Alessi: Ho letto qualche giorno fa un articolo su La Republica a firma Roberto Mania (domenica 9 febbraio), che s’intitolava “Il made in Italy vola (quando emigra)” e riportava i dati di Prometeia per cui in termini di fatturato, reddito e occupazione farebbe, in verità, bene alle aziende italiane di essere acquisite da solide realtà straniere. Ecco, abbiamo parlato di numeri e finanza da una parte, e di design excellence dall’altra. Ma forse c’è un terzo vertice che chi ha a che fare con la tradizione della storia d’impresa del nostro design (e non solo!) non dovrebbe trascurare, cioè il capitale umano, le persone, l’ambiente di lavoro.
Rodrigo Rodriquez: Il segreto del design italiano sta soprattutto nel fatto che l’azienda italiana, anzi, l’imprenditore, “parla” il linguaggio del designer: non a caso, designer stranieri lavorano volentieri in Italia, perché qui, più che nel proprio Paese, vedono valorizzato il potenziale del loro talento. Grazie all’intensa interazione tra designer e azienda, il risultato del processo che parte dall’idea innovativa proposta dal designer ed arriva al prodotto si nutre di valore aggiunto: infatti l’azienda pone al “servizio interessato” dell’idea innovativa offerta dal designer il proprio saper fare, il proprio know-how, consistente in: prototipazione, ingegnerizzazione, produzione, commercializzazione, comunicazione, garantendo il minimo di perdita della qualità dell’idea innovativa nel momento in cui essa si materializza in un prodotto e si moltiplica nei tanti esemplari destinati al mercato. Con tutto il rispetto per i Giapponesi che negli anni Ottanta presentavano la Total Quality come una loro invenzione, in realtà noi italiani l’abbiamo attuata per primi: il design italiano è Total Quality. Il processo, così come l’ho sopra descritto, funziona, come tu dici, grazie al capitale umano, grazie all’imprenditore e i suoi collaboratori, alla cultura di quell’impresa; e ogni azienda ha la propria.
Chiara Alessi: Ammesso che l’emotività sia un difetto quando si rilasciano interviste – e non ne sono così sicura – comunque non mi sembra che questo abbia affatto inficiato la tua versione dei fatti e quello che ci hai aiutato a comprenderne. In un documento che mi hai girato e di cui non rivelerò altri contenuti, come promesso, dici che “non si può riportare indietro l’orologio e imporre a Cassina di tornare l’azienda che era”. Quindi, in conclusione, convieni sull’uso di verbi al futuro (vedi sopra)? In senso ottimista o rassegnato?
Rodrigo Rodriquez: Ottimista, Chiara, ottimista.