Tutto ciò che ha prodotto un grande effetto non può davvero più essere giudicato
Goethe
Per colui che si occupa di design le opere del passato contengono la storia a loro precedente e quella a loro successiva. È la storia a loro successiva che illumina quella precedente, in un processo di continuo cambiamento. Le opere insegnano che colui che fu coinvolto nell'opera, come la loro stessa funzione, sopravvivono al loro creatore, e che le intenzioni dell'autore restano invece alle spalle. Esse dimostrano inoltre che l'effetto che l'opera ha su di noi non si basa solo nell'incontro con l'opera ma, come avrebbe detto Walter Benjamin, da cui anche queste parole sono mutuate, "in un incontro con la storia che ha permesso all'opera di scendere alla nostra epoca." Per Benjamin la storia – anche quella del design si potrebbe dire, vista l'importanza che assegnava alla "merce" surrealista – non è l'avvento di passato che progredisce in un presente superato da un futuro ineluttabilmente migliore, ma l'oggetto di un "progetto" che non giace in uno spazio vuoto, ma si è forma in un'epoca specifica, in una specifica vita, in uno specifico lavoro. Eppure, questo progetto risulta nella simultanea sospensione e conservazione del lavoro di una vita nel lavoro, di un'epoca nel lavoro di una vita e del corso della storia nell'epoca. Solo così è possibile esplorare l'epoca al di fuori della sua "continuità storica" – come si diceva al tempo – reificata, e, quindi, sollevare la vita fuori da quell'epoca e il lavoro fuori dal lavoro di una vita.
Ecco allora che la riedizione di alcuni mobili di Gio Ponti da parte di Molteni che saranno presentati in questi giorni del Salone del Mobile di Milano non ha nulla della nostalgica interpretazione di un passato aureo: decadente recupero di un'epica perduta, "di quell'Italia che fu capace di…" Queste realizzazioni non sono delle opere di storia, non sono delle riproduzioni destinate alla contemplazione nel museo superate dal tempo (diverso sarebbe un "discorso" su ricostruzioni adatte solo allo studio e alla ricerca). Sono rivisitazioni: nuove visite presso l'opera, che sollevano il lavoro da quell'opera e l'esperienza di una vita da quel lavoro. Generando un processo che, nel caso della realizzazioni di un mobile, è un atto concreto di "costruzione materiale" della memoria, riattivano l'energia latente del progetto e la re-immettono nella sola condizione che, nel caso di una "merce" di design, la verifica e le consente di esistere fuori dalla qualità di "replica", di astratto "déjà vu": il mercato.
In particolare i prodotti presentati qui in anteprima sono mobili che appartengono alla maturità di Ponti. L'architetto che impiega anni per realizzare in forma compiuta, nella propria casa-manifesto in via Dezza, quanto viene da lui insistentemente sottolineato in una serie di interventi "didattici" su Domus. Illustrati da espressioni come "la mia concezione della", o "io mi vado orientando sempre più verso", essi sono modi di contenere "tutto quanto concerne le necessità e l'uso di cose" che accompagnano la nostra vita moderna. Esemplari dell'essenza dell'estetica di Ponti (pannelli a parete, pareti organizzate, fondali-cruscotto, mobili auto-illuminanti) nella quale i muri, appaiono "schermi appesi" e dove la profondità è accennata per mezzo di profili rastremati che staccano i piani dal fondo. Oppure dando un profilo arrotondato o piegato ai margini e la scatola dell'oggetto si smonta in "fogli" dall'esile spessore. Quale solo esempio basterebbe citare che la libreria, osservando le vecchie foto della casa di via Dezza, non è mai usata per metterci dei libri, ma per "allestire" l'esposizione di oggetti artistici.
Se la storia del "made in Italy" ne risulta confermata, ciò che emerge in modo originale è una declinazione di un'ipotesi con la quale si è aperta la direzione di Domus di Joseph Grima giusto un anno fa: ovvero, che l'immagine del designer come architetto globale non nasca oggi, ma risalga almeno ai maestri del modernismo. Nel caso italiano, e di Ponti in particolare, tale dimensione è orientata solo all'affermazione del globetrotter individualista, ma sia accompagnata anche ad un tentativo dell'estensione e della penetrazione della rete di imprese nazionali.
Ripercorre tutto ciò ovviamente ha a che fare con la necessità di superare la figura che ha dominato il ventesimo secolo: quella del collezionista. Se arredi e interni vengono sempre più riprodotti in contesti museali, questo fatto non può più rappresentare una visione singola nostalgica e passatista, ma deve trasformarsi in un fenomeno di allargamento e di accessibilità che consenta un reale e ironica democratizzazione del "pratico modo di abitare circondati dall'arte".
Come è venuta l'idea di rieditare gli arredi di Gio Ponti?
L'idea è venuta due anni fa a casa di Paolo Rosselli, uno degli eredi di parte degli archivi di Ponti, vedendo una libreria che l'architetto aveva nella sua casa di via Dezza: una libreria degli anni Cinquanta, molto bella, semplice, lineare, di legno dipinto di bianco, con l'aria un po' fané. Verificata la disponibilità degli eredi Ponti ad approvare l'operazione è stata avviata un'indagine dei prodotti esistenti, per cercare di capire che cosa fosse ancora in produzione.
Tenendo conto che Molteni non aveva mai lavorato con Ponti e che lui non c'è più e quindi tutto il lavoro di riedizione andava fatto a partire dei disegni, delle memorie degli eredi, e sugli originali che si sarebbero riusciti a recuperare. Tra le moltissime realizzazioni rintracciate è stata fatta una prima selezione di una trentina di pezzi di cui si potesse ricostruire la storia e il contesto. A quel punto abbiamo affidato all'architetto Cerri di fare una selezione sulla base di quello che oggi può avere ancora senso riproporre e di quello che è nel DNA di Molteni. Cominciando la ricerca negli archivi, il materiale che abbiamo trovato ci ha stupito per la capacità di poter ricostruire con esattezza il processo creativo di Ponti, pur a grande distanza di tempo. Pur disegnando moltissimo, Ponti non faceva mai niente tanto per fare, ma sempre in conseguenza di un impegno professionale concreto e stabilito. È in un contesto come questo ad esempio che è stato individuato un primo progetto: la sedia in allumino per la prima sede della Montecatini, dell'inizio degli anni Trenta.
Pur se era stata pubblicata in un catalogo giapponese del 1936 che raccoglieva le più belle sedute dell'epoca, la sedia non era, però, mai entrata in produzione ed era stata realizzata solo per i 1500 dipendenti della Montecatini. Così abbiamo fatto un primo prototipo ed è piaciuta subito a tutti.
Tra le moltissime realizzazioni rintracciate è stata fatta una prima selezione di una trentina di pezzi di cui si potesse ricostruire la storia e il contesto
Realizzato il prototipo della sedia ci siamo fermati ed abbiamo cominciato a chiedere dei pareri per capire in quale direzione proseguire al fine di produrre dei prodotti di grande qualità, ma con dei prezzi accessibili. L'idea non era quella di fare una serie di pezzi limitati per collezionisti, ma di riportare nelle case di oggi gli arredi di Ponti. Lo stesso processo sviluppato per la sedia è stato allora seguito, in modo molto più complicato per le librerie della sua casa di via Dezza e per il cassettone in legno. Un cassettone che lui ridisegna in vari momenti della vita per la sua casa per le società Nordiska, svedese, e la Singer & Sons americana. Perché Ponti negli anni Cinquanta produce arredi per due società american: Singer & Sons e Altamira. E queste ne producono in grande quantità. Non sappiamo esattamente dove siano oggi questi pezzi oggi, ma esistono ancora molti come confermano i costosi cataloghi delle aste e degli antiquari.
Parallelamente, al Centro Studi e Archivio della Comunicazione di Parma, l'archivio a cui gli eredi hanno affidato la conservazione dei disegni, abbiamo cercato la documentazione con la quale fosse possibile ricostruire con precisione i progetti. E qui erano disponibili tutti gli aspetti: dai disegni fatti a mano libera direttamente da Ponti, a quelli tecnici con la scelta dei legni, le soluzioni per il piedino del cassettone, lo snodo del cassetto. Quindi una precisione e una capacità di documentare quello che Ponti faceva abbastanza incredibile. Perché il punto è stato – che è poi la questione grossa delle riedizioni – rifacciamo come allora o rifacciamo come si farebbe oggi?
Alla fine abbiamo cercato di tenere insieme le due cose, ovvero massima fedeltà all'originale, quindi all'idea. Soprattutto alle proporzioni che sono molto importanti in questi mobili, che sono molto semplici, ma se si sbaglia la distanza tra la base e il piede del cassettone si perde la magia di questi pezzi. La maniglia del cassettone, ad esempio, deve avere un certo spessore, se non lo ha non è più una maniglia e diventa altro. Quindi andava cercata una fedeltà all'originale e molto precisa. Dall'altro lato, si trattava però cercare di reinterpretare con le tecniche produttive di oggi un progetto degli anni Cinquanta. Anche in questo caso abbiamo affidato a dei prototipisti molto bravi la realizzazione dei primi pezzi. Con l'idea d'industrializzare la produzione. Quindi è un progetto al confine tra industria e artigianato, ma con l'idea che poi il prezzo finale sia comunque accessibile. Questo ha voluto dire ovviamente addentrarsi ulteriormente nel mondo Ponti, conoscere gli eredi farsi raccontare delle storie, o degli aneddoti su Giordano Chiesa, il suo artigiano per lo studio dei prototipi.
All'epoca le aziende producevano in grande quantità. Oggi il processo non è cambiato rispetto a quello degli anni Cinquanta. Quello che è cambiato sono le dimensioni industriali, più ampie.
Ci siamo affidati anche alla consulenza di Unifor, altra azienda del gruppo Molteni. I primi prototipi erano troppo presenti, non ci convincevano, mentre quelli realizzati ora sono costruiti con una dimensione e un'attenzione tale rispetto ai tagli e agli incastri da poter mantenere quel peso contenuto che viene richiesto a prodotti come una "libreria appesa a parete", che si deve poter trasportare in ogni casa già montata, senza creare troppi problemi statici alle pareti.
La libreria verrà realizzata in due dimensioni: quella più grande che arriva fino a terra e quella sospesa al muro. Entrambe realizzate da Ponti nella prospettiva della casa di via Dezza, presentavano delle varianti: una aveva un sistema illuminante al suo interno, con una lampada con funzione di cornice e non di corpo illuminante. Nella realizzazione cercheremo di tenere questo dettaglio in quella con il corpo allungato. Le librerie si distinguono per i ripiani ad ala d'aeroplano. Sotto c'è un rinforzo, ma è tutto un gioco di forme, di pesi e di legni, che viene complessivamente percepito come delle linea sottili. Per i legni abbiamo poi trovato con gli archivisti del CASC tutti i disegni tecnici delle finiture: olmo, frassino, noce. Questi erano importanti soprattutto per il cassettone, realizzato in due dimensioni, dove le maniglie hanno tutte la stesse nuance, quindi uniformità, ma presentano un'onda e una fiamma del legno diverse.
Abbiamo individuato altri diversi tipi di cassettoni, altrettanto belli, che abbiamo per il momento scartato. Se questi prodotti andranno bene potranno eventualmente essere realizzati. Gli altri pezzi sui quali abbiamo scelto di continuare sono: la poltrona che aveva in via Dezza, realizzata in versioni differenti per più produttori; un bel tappeto in vacchetta in colori diversi, molto ironico, che il cui nome si rifà a un coevo film di Fellini; e poi un tavolino, prima realizzato in radica, poi in ottone, poi in alluminio, come incorcio neoplastico di una griglia colorata con un ripiano di vetro. Tutti pezzi che seguono le visioni di Ponti, con le gambe sempre assottigliate, la leggerezza piano-superficie-curva, la policromia.
Proseguire un percorso che è nella storia dell'azienda Molteni, quello del rapporto con il mondo dell'architettura e non solo del design. In genere si comincia con gli architetti che vengono da Molteni per realizzare un certo prodotto, in occasione di un altro incarico che implica anche dell'arredamento. Questo approccio non nasce, perciò, dalla voglia di avere un prodotto con la firma Nouvel, o Foster, ma da una grande realizzazione che si fa insieme a loro e dalla quale, poi, nasce un prodotto. Questo con Ponti è possibile solo idealmente, perché lui non c'è più e quindi nemmeno il confronto diretto. Rientra nell'idea di mantenere un legame con una storia italiana come quella di Ponti e Molteni è un'azienda molto radicata nel territorio. Poi c'è il lavoro con gli artigiani, la volontà di ritrovare lo stesso metodo di lavoro. Ponti lavorava così come si lavora oggi in azienda. È un po' come dire: "ho un incarico: devo fare 1500 arredi per la Montecatini, studio una sedia che poi entra in produzione. Studio un oggetto non perché mi piace, ma affinché sia funzionale a un progetto concreto e poi vedo come svilupparlo in altro. Come trasformarlo da progetto in piccola serie a progetto che può entrare nelle case di tutti." Se tu fai un grosso progetto puoi avere le risorse economiche per investire nella ricerca, questo ti consente di capire delle cose sugli arredi, per esempio di Ponti, e di mettere questo lavoro a servizio del grande pubblico. È quello che abbiamo fatto nel caso del tavolo Less di Jean Nouvel. Il tavolo è nato perché Nouvel aveva l'incarico di realizzare la Fondation Cartier, si è affidato a Unifor e Molteni per realizzare gli interni. Ovvero, è andato da un'azienda di rifermento e una volta capito come si poteva fare un bel tavolo di quel tipo si è deciso di metterlo in produzione in grande numero e quindi per tutti. Anche perché, per recuperare i costi della ricerca e dello stampo, bisogna venderne una certa quantità e l'iniziativa di basa su un serio piano economico.
Contemporaneamente a questo progetto facciamo una collezione diversa, con Ron Gilad. Questa è l'idea di avere una collezione Ponti. È diverso da avere un solo prodotto firmato, un pezzo di successo che si produce perché continua a vendere. Mi sembra che una ditta come la Molteni deve guardarsi allo specchio e chiedersi chi sono stati Rossi, Meda, Afra e Tobia Scarpa, Magiarotti. Capire quali sono stati i legami con protagonisti del mondo dell'architettura, che non sono esattamente dei designer. Gio Ponti rientra in questa linea del segno italiano dell'Italian designer storico, nel senso nobile del termine. Dall'altro lato con Ron Gilad c'è la scommessa totale sul nuovo, che ti piace perché sviluppi e hai un rapporto nuovo con il designer. Non credo che ci sia il problema di pescare nel passato perché non sappiamo cosa fare oggi. Cerchiamo di tener viva una cosa che ci ha consentito di arrivare fin qui con il nuovo e anche di scommettere sul nuovo. E poi perché è qualcosa che poche aziende si prenderebbero il rischio di fare. Se non lo facciamo noi non lo farebbero in molti, o lo farebbero molto male. Progetto espositivo, Questi sono pezzi che si devono vendere e che se non riesce hai sbagliato qualcosa di grosso, non sono un gioco. Non c'è alcun dato nostalgico.
Vivere alla Ponti: le case abitate da Gio Ponti. Esperimenti di vita domestica e architetture per l'abitare e il lavoro
17-22 aprile ore 10-20
23 aprile - 4 maggio ore 10-13 15-18
Ordine degli Architetti di Milano
Via Solferino 17/19, Milano