Per me, come per Industrial Facility, si è trattato certamente di un progetto inconsueto. Il nostro metodo di lavoro normalmente è organizzato per affrontare prodotti di grande serie in cui la produzione raramente avviene nello stesso luogo di chi commissiona il progetto. Per quanto siamo riusciti a introdurre un certo livello di 'qualità', questo sistema di fabbricazione, però, in anni recenti è diventato sempre più incongruente e autoriferito. Oggi è sempre più raro che si riesca a visitare la fabbrica dove si produce; i dettagli vengono discussi con agenti e con una serie di intermediari, il cui mestiere riguarda più che altro l'efficienza e la riduzione dei costi, piuttosto che il rispetto delle intenzioni del progetto. È un lavoro in certo qual modo umile, ma fondamentale: far attraversare ai progetti le difficoltà della psicologia, della distanza, dei costi e così via. Per quanto riguarda Industrial Facility, questo è inevitabilmente sfociato in una specie di controllo di qualità del realismo, perché parecchi dei nostri progetti si propongono di andare al di là delle aspettative della società, e perfino di quelle del pubblico. Per questo abbiamo creato autonomamente dei requisiti 'nostri' a cui un prodotto deve rispondere. Essere capaci di rifinire un prodotto, per esempio, può sembrare banale: è proprio questo livello concettuale che andato perdendosi con lo sviluppo dell'industria globalizzata. Con Mattiazzi le cose non possono essere più differenti. Il modello italiano – quello del design come espressione di cultura – in questa parte del mondo è ancora vivo. La produzione non è auto-riferita. Anzi. Gli italiani vivono e respirano il proprio mondo produttivo e perciò assumono il ruolo di esperti, o di artigiani, che comprendono il materiale a un livello consentito solo da anni di dedizione.
Mattiazzi e Industrial Facility si sono incontrati grazie a due personaggi: Nitzan Cohen, un ottimo designer lui stesso (Cohen ha disegnato le sedie He Said/She Said, una serie che ha caratterizzato la prima collezione di Mattiazzi). E Florian Lambl, che svolge funzione di art director.
Le mie prime idee del progetto hanno preso forma nelle visite fatte in fabbrica. Una sedia ha bisogno di carattere, ma credo che questo carattere debba nascere da una serie di eventi, errori, dialoghi, modelli e prove: tutti legati al modo di produrre della fabbrica e al talento degli artigiani.
Come prima sortita, il progetto di una sedia non è un compito facile. L'impostazione del progetto è stata di ingenuo candore (da parte mia) e di assoluta esperienza del legno (da parte di Mattiazzi). Questa combinazione di opposti ha avuto profonda importanza. Mattiazzi però non ha posto vincoli al progetto se non quello che fosse fatto di legno e che non banalizzasse la sua grande competenza produttiva. Così come pretendiamo realismo da tutti i progetti che elaboriamo, abbiamo imposto a noi stessi che la sedia integrasse tutti i requisiti a cui la condizione moderna ci obbliga: che fosse comoda, che potesse scivolare sotto un tavolo, che fosse impilabile, che fosse leggera e facile da spostare, che avesse dei braccioli e che fosse facile da spedire.
Che cosa rappresenta questa particolare sedia nello sviluppo della vostra ricerca personale sulla tipologia della sedia (e più in generale della seduta)?
Dopo aver lavorato per tanti anni su prodotti di piccole dimensioni ho acquisito una buona comprensione del rapporto tra mano, occhio e oggetto. Per una sedia occorre arrivare alla comprensione del corpo nel suo insieme, e quindi ho scelto di affrontare il progetto da questo punto di vista. Il mio socio Ippei Matsumoto, che lavora con noi da parecchi anni, si è assunto il compito di dare realtà materiale all'aspetto concreto che la sedia avrebbe dovuto avere. Può sembrare rozzo o arretrato, ma tutto quello che facciamo prima di tutto viene realizzato in laboratorio, a mano e, solo in una fase successiva, affidato al computer. Per una qualche ragione riesco sempre a capire quando una sedia è stata progettata per prima cosa su un computer: non dà calore alla mano.
La Mattiazzi è una tipica azienda familiare parte essenziale del tessuto industriale italiano. Quale rapporto hai instaurato con questo tipo di produttore e quanto questo ha influito sul progetto della sedia?
Nevio e Fabiano Mattiazzi hanno un'evidente mania per tutto ciò che è di legno. Negli ultimi trent'anni questa mania li ha condotti a produrre mobili per alcuni dei grandi marchi dell'arredamento italiano. Nel corso degli anni hanno affinato la loro competenza e la qualità dell'azienda, investendo costantemente nei macchinari più aggiornati, rimanendo radicati a un sano atteggiamento artigianale. A differenza di altri produttori italiani, inoltre, i Mattiazzi hanno saputo mantenere tutte le varianti della filiera del legno sotto un unico tetto. Penso che sia una cosa molto rara avere l'occasione di lavorare con un'azienda così, che non vede la necessità di "esternalizzare" segmenti di produzione, e questo fatto mi ha permesso di acquisire coscienza di ogni processo di produzione e del modo in cui tutti si combinavano insieme. Malintesi ce ne sono stati, anche errori ma, come per tutti i grandi progetti, è proprio il modo in cui li si affronta che introduce una prospettiva nuova. Ho sempre sostenuto che il progetto progettuale consiste nel prendere una serie di decisioni creative. E in questo la Mattiazzi ha avuto un ruolo fondamentale. Ma se questo a posteriori sembra molto semplice, la quotidianità della produzione è stata ben diversa. Se avessi previsto le difficoltà forse non avrei condotto il progetto nel modo che ne è risultato. Devo ringraziare Mattiazzi per avermi nascosto queste difficoltà.
Puoi descriverci la tua esperienza professionale con questa azienda del distretto della sedia del Nord Est italiano che, tradizionalmente, è tra i maggiori produttori di sedie del mondo ma che oggi, a fronte della crisi, è in cerca di una nuova identità? Che impressione ti sei fatto?
Non avevo molta esperienza di questa parte d'Italia, prima. Certi progetti precedenti di Established & Sons erano stati prodotti qui, ma non con il livello di intimità per quanto riguarda il lavoro di Mattiazzi. La crisi economica di cui parli è molto diversa da quella britannica. Le aziende in Gran Bretagna raramente sono "a conduzione familiare", in genere fanno parte di società più grandi. Ciò significa che quando le cose vanno male fanno i bagagli e chiudono. Stock-on-Trent, nell'Inghilterra settentrionale, ne è un tipico esempio. A Udine, invece, data la gestione familiare, non c'è altra scelta che la preservazione, l'invenzione e la sperimentazione. E io credo che Mattiazzi, con l'aiuto di Nitzan Cohen e di Florian Lambl, stia facendo sperimentazione industriale. È culturalmente avanzata perché l'industria viene considerata una forma di cultura contemporanea. Credo che questo atteggiamento gli sarà utile poiché si tratta di qualcosa che in genere non è preso in considerazione nella maggior parte degli altri luoghi del mondo industrializzato.
Se dovessi indicare le peculiarità del vostro progetto per quanto riguarda le tecnologie del legno?
Dopo parecchie visite alla fabbrica della Mattiazzi, e molte discussioni a quattr'occhi con i suoi artigiani, ci è venuta voglia di spingere Mattiazzi più avanti nella direzione dell'artigianato robotico. Che cos'è una sedia i cui elementi sono una combinazione di parti decisamente complesse (rese possibili dalla lavorazione con macchinari a controllo numerico, soprattutto il loro robot a otto assi, di cui sono esperti) accanto a semplici forme tradizionali rifinite a mano.
Avevo notato che la potenza del robot, la ripetitività della macchina e la competenza artigianale avevano già rapporti sincronizzati in fabbrica dove ogni processo viene accuratamente selezionato, come i blocchi di legno cui bisogna dar forma. Tuttavia, piuttosto che lasciarsi intrigare da queste possibilità illimitate, Mattiazzi ci rivelava una formula produttiva che invitava a trovare un giusto rapporto tra costi, tempo e tecnica. Una sedia completamente fatta dai robot sarebbe stata troppo costosa, anche se la sua produzione probabilmente sarebbe stata più rapida rispetto a una totalmente manuale. Per componenti troppo semplici, inoltre, l'impiego di un robot non è giustificato. Se una certa componente critica è fabbricata dal robot però, in combinazione con metodi tradizionali, la formula permette al progetto di trovare il criterio corretto: un sottile gioco di equilibrio.
Abbiamo considerato questa formula come la matrice del progetto.
È stato attraverso il costante dialogo con Kim Colin, socia di Industrial Facility, che l'ispirazione è arrivata a rivolgersi alla natura, dove la complessità fiorisce con la razionalità. La bellezza è semplicemente il risultato di una crescita continua. In particolare i rami degli alberi hanno offerto l'analogia fondamentale del progetto. Come accade per i rami di un albero volevamo che Branca chair (come l'abbiamo chiamata) avesse un'aria familiare. Accettiamo che i rami sostengano le giunzioni di ramoscelli e foglie in posizioni differenti, apparentemente casuali ma in realtà intenzionali.
Nella Branca chair è la gamba posteriore a sostenere i giunti critici del bracciolo, della seduta e dello schienale, ed è ottenuta grazie a un singolo pezzo di legno prodotto da un robot. I giunti sono solo una parte della linea filante della sedia, il cui profilo semplice cela la complessità della produzione.