Pochi artisti, forse nessuno, sono riusciti come Max Ernst ad immergersi in profondità dentro le tensioni e le inquietudini di un secolo, caricarsene e dar loro una forma condivisibile con un pubblico ampio. Capace di andare oltre il marchio surrealista, investito nella pittura, nella scultura e anche nel cinema, autore di trionfi onirici come “L’antipapa” e “La vestizione della sposa”, degli enigmatici frottages della “Histoire Naturelle”, Max Ernst ha attraversato interi capitoli della storia dell'arte moderna – anche passandoci insieme gran parte della vita, se ci si riferisce a Leonora Carrington, Peggy Guggenheim o Dorothea Tanning. Attraverso questo lungo viaggio, Pierre Restany intravedeva la traccia del suo patrimonio culturale di origine: ne parlava nel settembre del 1975, sul numero 550 di Domus, in occasione della mostra dedicata a Ernst a Parigi.
Max Ernst. Le peintre le plus allemand
Dal 16 maggio – e per tutta l’estate – il Grand Palais a Parigi ospita un colossale “omaggio” a Max Ernst, l’esposizione più vasta e più completa che si sia mai tenuta dell'opera sua, nella sua lunga carriera. L’ha preceduta una recentissima esposizione al Guggenheim di New York, ma questa è più ricca, soprattutto per I apporto dei dipinti e dei bronzi della collezione de Ménil.
Una mostra come questa è occasione unica per un viaggio attraverso Ernst, nel cuore della sua pittura, tappa per tappa. E le tappe, in Ernst, hanno tutte un risvolto storico. Nasce a Brühl vicino a Bonn, in Renania, nel 1891, l’anno di fondazione della lega pangermanica. Nel 1919, alla fine della prima guerra mondiale, scopre de Chirico e Dada, preludio al surrealismo – e del surrealismo sarà per 30 anni, dal ’24 al ’54, il paladino. Il Gran Premio alla 27ma Biennale di Venezia gli costerà l’esclusione, da parte di Breton.
La presa di potere di Hitler, nel ’33, segna della sua impronta allucinata la serie delle “foreste pietrificate”. L'angoscia sarà sempre presente, nella visione di Ernst, durante il suo soggiorno in America, per tutta la seconda guerra mondiale. Sarà il dopoguerra a dargli, oltre alla “consacrazione” materiale, una ritrovata libertà nell’uso della fantasia.
Facciamo il punto, nel 1975: l’opera di Max Ernst non può per nulla esser ridotta alla misura dell’“impegno” surrealista. Essa è il poetico “giornale di bordo” di un periodo di storia, un periodo che ha visto abusi di cui l’umanità non può trar vanto. Un’opera vasta, mutevole, flessibilmente umana. Anzi, umanistica. Ernst è un umanista renano uscito dalla tradizione cattolica tedesca, impastato di poesia romantica e di filosofia esistenziale. Anche nei suoi accessi di rivolta o nelle sue provocazioni volute si riconosce questa precisa dimensione delia cultura germanica “aperta”. Una cultura a cavallo fra il XIX e il XX secolo, una sensibilità progressivamente anarchica, in cui ogni rifiuto ed ogni scelta si basano sul rispetto della libertà individuale.
La pittura di Max Ernst incanta e affascina perché è, anzitutto, intelligente e mentale. L’opera sua è esente da monumentalità, priva di “istinto” pittorico, spesso di poca presenza sensuale. Ma la qualità dell’immagine ch’essa ci propone è di una dignità eccezionale nella sua raffinatezza. Max Ernst illustra in pieno la componente romantica del surrealismo. La sua pittura è una pittura di stati d’animo. E la grandezza di Ernst sta nel fatto che egli non si è limitato a ritrascrivere gli stati d’animo di Breton quali il Papa del surrealismo li aveva codificati nel manifesto. Ernst ha troppa immaginazione per far ciò. Immaginazione nel senso di struttura sistematica dell’immaginario, di organizzazione autonoma della fantasia come sistema di linguaggio.
Il ricorrere del tema semiotico dell’uccello ha il valore di un simbolo operativo, come per i soliluna nei firmamenti dei “parquet frottés”. La tela del 1942 “Il surrealismo e la pittura”, vero marchio del militantismo bretoniano del dopoguerra, la si vedrà in tutte le antologie di storia dell’arte: è significativo osservarvi (contaminazione di Matta) la crescita smisurata dell'uccello, che diventa mostro.
La pittura di Max Ernst non s’impone, mai, per le qualità propriamente pittoriche ma, ripeto, per la qualità della sua fantasia: che è l’equivalente figurativo della fantasia astratta di Paul Klee. Sia nell’una che nell’altra si ritrova uno spirito fantastico sottile, una poesia di fuochi fatui, un mondo di immaginazione il cui humus si alimenta alle stesse sorgenti, agli stessi aspetti dell’umanesimo germanico.
Ecco che, dopo 85 anni di esistenza votata alla internazionalità, quel che Ernst offre al pubblico parigino ’75 è la più autentica immagine dell’umanesimo tedesco: una fantasia tanto generosa che fragile. Max Ernst, l’uomo dai molti passaporti, il viaggiatore senza frontiere, s’è sempre portato con sé, nel bagaglio, il sapore della terra renana. Max Ernst è il pittore più fondamentalmente tedesco del XXmo secolo.
Pierre Restany