È il 2005, e su Domus va in scena uno scontro che ha tutti i crismi dello scontro da manuale: arbitrati da Stefano Boeri, Joris Laarman, nella veste di enfant terribile neodecorativista e provocatore, e Vico Magistretti nella veste di maestro figlio della più eroica razionalità, dialogano:
“Joris: ‘…Si può dire che considero gli oggetti come delle entità autonome. Guardo un oggetto e mi chiedo che cosa voglia essere. Perché mettiamo addosso a tutti i radiatori la stessa uniforme e li nascondiamo come se non esistessero?’
Vico: ‘Non sono d’accordo con tutto quello che dice Joris, ma capisco il senso di quello che vorrebbe dire. Io sono abituato a esprimere le mie idee di design con un concetto chiaro, non con dei disegni, con uno stile. Sono abituato a spiegarle per telefono. Le spiego attraverso forme semplici (il quadrato, il triangolo) e misure. Per telefono, si può persino spiegare perché si vuole usare una forma piuttosto che un’altra.
(...) La semplicità è intellettualmente più elegante. È una ricerca difficile, perché devi immaginare qualcosa di più semplice di prima, ma che abbia un uso migliore.’”
(Joris vs Vico, Vico vs Joris, Domus 878, febbraio 2005)
Magistretti è lì nel ruolo di totale ed indiscussa icona vivente, ma a differenza di ciò che si definisce come icona è pienamente vivo e attivo, tutt’altro che cristallizzato ed eterno, è pienamente immerso in un dibattito di cui è parte. Non parla in nome di uno stile. Anche perché, come poco tempo prima dichiarava a Hans Ulrich Obrist che lo intervistava:
“Ho l’impressione che adesso ci sia una tendenza diversa, se vogliamo usare una parola magari sbagliata, ‘stilistica’. La parola ‘stile’ è sempre una parola che esprime male quello che è stato il senso, se c’è stato un senso, dell’Italian design.”
(Interview 01: Vico Magistretti, Domus 866, gennaio 2004)
Gli anni 2000 lo salutano come icona, e lui di quegli anni è pieno protagonista. Quindi, in perfetto accordo con lo schema narrativo che reggeva molte serie TV anni 2000, possiamo tornare a cinque decenni prima per esplorare come la figura di Magistretti si sia consolidata nelle pagine di Domus.
Delle sue espressioni rettilinee vi accorgerete meno poiché sono aspetti, aperture, soglie; e le oltrepassate. I suoi tracciati curvilinei vi arrestano. Li avete pregustati ad Arenzano, a Carimate, a Ello. È lui. (Gio Ponti, 1963)
Innanzitutto, si può dire che la cifra dei primi anni pubblici di Magistretti sia marcata, più che dall’iconizzazione, dall’iconoclastia. Non abbiamo infatti una faccia, non compaiono suoi ritratti, ma, nel pieno spirito dell’editoria dell’epoca, le sue opere.
Il Magistretti degli anni ‘50 e ‘60 è il Magistretti delle case: “Una nuova villa di Magistretti,…” è la frase con cui viene presentata la sua villa di Carimate, dopo che già erano comparse quelle di Arenzano, Ello, Azzate (Domus 363, 405, 409). Lontano dall’affiliarsi ad una compagine stilistica, Magistretti è profondamente impegnato a costruire l’era cui lui appartiene, affiancando la sua voce a quella dei grandi nomi italiani come gli Albini e Ponti del dopoguerra, i Castiglioni e Caccia Dominioni. Integra le loro produzioni nei suoi progetti, così come fa con le sedie di Mies e di Arne Jacobsen. Nel 1963 è Ponti stesso a recensire la casa di Azzate:
“(…)Tra interni ed esterni egli crea, come qui, una architettura di vasti informali porticati, di androni, con risorse da architetto, con apparizioni di vedute, e graduazioni di luce. Bravissimo.
(…) E dentro: delle sue espressioni rettilinee, circolandovi, vi accorgerete meno poiché sono aspetti, aperture, soglie; e le oltrepassate. Invece i suoi tracciati curvilinei arrestano. Li avete pregustati ad Arenzano, a Carimate, a Ello. È lui.”
(Una casa di Magistretti, in collina, Domus 409, dicembre 1963)
Si sta iconizzando prima di tutto un linguaggio visuale e spaziale, eclettico e moderno fatto di superfici ritagliate e convivenza di materiali dalle origini diverse, industriali e a volte vernacolari, parte della ragione per cui la sua realizzazione ad Arenzano diventa allo stesso tempo emblema di un filosofia progettuale indipendente e oggetto delle critiche dell’ultimo CIAM ad Otterlo nel 1959.
Gradualmente, da presenza ormai familiare nel panorama italiano, Magistretti diventa quindi un nome. Per questo nel 1966 la sua villa a Carimate può ormai essere annunciata così:
“Una nuova villa di Magistretti, che si riallaccia alle altre sue da noi già pubblicate e sembra proseguire il discorso formale con esse iniziato — un discorso più o meno complesso, nei diversi casi, e sempre più magistrettiano.”
(Vico Magistretti: una casa sul colle, Domus 444, novembre 1966)
Gli elementi presenti negli interni sono sempre più suoi — i globi di vetro per Venini, la sedia Carimate, nata per un golf club di campagna che non poteva permettersi i costi del design danese e poi disseminatasi in una miriade di interni italiani; la sua cifra diventa riconoscibile e riconosciuta, comunicata dalla critica.
Negli anni ‘70 e ‘80 Il passo successivo: Magistretti diventa marchio.
“Design: Vico Magistretti.” Un’espressione formulare che accompagna costanti apparizioni di suoi pezzi di design nelle pagine più diverse di Domus: sono gli anni della lampada Atollo e Snow per O-luce, sedie come la Selene che rientra nelle grandi rassegne di innovazione e di tendenza. Magistretti è brand e lavora per i brand, a questo punto in tutte le scale della sua attività, inclusa l’architettura, con gli show room per Artemide e Cassina (Domus 508 e 602).
Gli anni ‘90 però sono gli anni in cui il processo di iconizzazione ha apertamente inizio: Magistretti diventa anche una faccia, una presenza costante anche fisica, ma resta difficile fargli fare il gioco dell’icona, a regole che non siano le sue. Cominciano le mostre, le interviste, le monografie recensite. Tenendo a distanza tanto le magliette dell’impegno sociale quanto quelle della retorica del progettista come artigiano, che di volta in volta gli si tenta di mettere addosso, Magistretti presenta sempre un comunicazione di sé improntata al più impermeabile ed ironico understatement. Nel 1991 ci si interroga sul suo posizionamento all’interno della condizione postmoderna, e lui dal suo libro a cura di Vanni Pasca:
“Una delle cose che mi danno motivo di fierezza è che se ho disegnato circa 120 oggetti, di questi almeno l’ottanta per cento è ancora in produzione. Vendere è un fatto biologico, riguarda il rapporto che l’oggetto ha con la storia. Noi non facciamo dei quadri, noi dobbiamo vendere abbastanza rapidamente, perché se no i nostri oggetti vanno fuori catalogo. (…) Dovevo fare una casa, e mi ha fatto venire l’esaurimento nervoso. E ricordo che ho pensato: Beh, facendo il design mi pago il gioco del golf.”
(dalla recensione in Domus 731, ottobre 1991)
La critica dibatte il mondo curatoriale nelle sue scelte di raccontare il maestro — ormai lo si può chiamare così — e intanto il maestro trova lo spazio per raccontare la sua pratica, fatta di relazione con la produzione e genesi relazionale del concept, di raccontare i suoi progetti nati al telefono, come la lampada Chimera per Artemide.
Avere a che fare con della gente che abita una casa, ma si fa rappresentare da qualcun altro, delega qualcun altro a costruirgli una immagine, è un tipico esempio di incultura.
Let icons be icons, dunque, con la loro storicità, le loro regole, la loro visione. Specialmente se al momento della loro canonizzazione, le suddette icone stanno ancora progettando e producendo a pieno ritmo per una miriade di diversi marchi, da Tisettanta a dePadova a Cassina (Vico Magistretti: opere tra il 1992 e il 1995, Domus 767, gennaio 1995 ). Si può percepire la sua autonomia anche quando, come nel 1993, viene chiamato assieme ad altri architetti italiani a tracciare il paesaggio dei suoi riferimenti:
“Amo le panchine nei parchi inglesi, la Mini Minor, il Burberry, la mappa del metrò di Londra. Oggetti belli, soprattutto perché il bello è in secondo piano rispetto all’utile. Oggetti belli perché è la loro ripetizione a farli straordinariamente belli.
(…) Pochissimi sono i pezzi eterni: un mobile diventa eterno se riesce a sopravvivere almeno 50 anni, a quel punto è per sempre. Allora comporta significati e riferimenti ben precisi.”
(Gli arredi degli architetti, Domus 748, aprile 1993)
Rientriamo così all’intervista di Obrist, dove ormai l’icona si diverte a depositare i suoi tratti costituzionali:
“Detesto lo stile, non me ne importa niente, mi interessano altre cose.
Ci sono fondamentalmente due modi di fare design. Uno è lo styling design tipico, per esempio, delle automobili americane dagli anni ‘50 agli anni ‘80. Aggiungevano una piccola parte cromata e diventava il modello dell’anno nuovo. L’unica cosa che mi interessa è il concept design. Io credo che, tra le caratteristiche di quello che è stato il design italiano, la cosa che mi ha colpito di più è stata la semplicità concettuale. Se mi chiedono quale sarebbe una cosa che io avrei voluto disegnare, a me piacerebbe dire: l’ombrello. Credo che sia un esempio straordinario di design, anche perché non si riferisce a nessuno stile ma si riferisce a un uso.
Una cosa che mi ha sempre fatto piacere, è quella di poter trasmettere quello che avrei voluto fare, attraverso il telefono.”
(Interview 01: Vico Magistretti, Domus 866, gennaio 2004)
Al momento in cui Domus lo inserisce nel monte Rushmore della sua copertina 869 (aprile 2004), assieme ad Ettore Sottsass, Enzo Mari, Andrea Branzi, Alessandro Mendini, l’indipendenza di Magistretti è essa stessa un’icona. Non era riuscita la retroguardia CIAM ad inscatolarlo credibilmente tra i “reazionari” nel ‘59, né lo si potrà assimilare ad un label che non sia il suo; intanto è diventato elemento costitutivo del domestic landscape italiano senza tempo, a punto che su Domus la lampada Atollo figura tra gli oggetti scenici di design più rilevanti del cinema internazionale (Le icone del design nel cinema, Domus 1001, aprile 2016) e l’iniziativa Il mio Magistretti — che nel 2012 invita a fotografare i pezzi di Magistretti presenti nello spazio domestico di chiunque interessato — risulta tra quelle finora in grado di restituire al meglio lo statuto di icona anomala e assoluta di una figura centrale di un intero secolo. Let them icons be icons, let them be it their way.