Questo articolo è stato pubblicato su Domus 691 / febbraio 1988
Toyo Ito: La Torre dei Venti, Yokohama
Le nostre città, trovandosi non più in una fase di crescita bensì di assestamento, hanno bisogno di meno interventi di quanto architetti e urbanisti credano e la speculazione edilizia insistentemente suggerisca. O meglio: hanno bisogno di interventi meno radicali. Non più sventramenti e grandi espansioni periferiche, non più sconsiderati abbattimenti e affrettate ricostruzioni. Invece, una buona, attenta manutenzione. Tale manutenzione non può limitarsi alle costruzioni private, bensì coinvolgere anche e soprattutto lo spazio pubblico.
Toyo Ito: La Torre dei Venti
Nel febbraio del 1988, Domus presenta la torre realizzata dall'architetto giapponese a Yokohama: un concreto esempio di rarefazione e di liberazione dello spazio architettonico.
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- 04 maggio 2013
E non deve scadere nell'allestimento di strade pedonali irte di vasi da fiori esagonali e lampioni falsi antichi, bensì intervenire con accortezza sulla forma della città storica, liberandola dalle incrostazioni deturpanti e proseguendo quella sovrapposizione di architetture nel tempo che, da sempre, è la sostanza della costruzione urbana. In questo senso l'intervento di Toyo Ito su di una struttura esistente, brutta ma per il momento inalienabile, è buona manutenzione urbana. Non pretende di stravolgere il brano di città nel quale opera, soltanto di migliorarlo: 'vestendo' la carcassa di cemento armato con un'architettura nuova, una struttura leggera fatta di metallo, di specchio e di luce. È un'opera perfettamente, squisitamente inutile. Serve, però, a riqualilicare un luogo: con sapienza e modestia. È per questo che pubblichiamo, non senza un malinconico arrière pensée volto alla maggior parte degli "arredi urbani", questa piccola curiosa torre stranamente nata nel cuore di Yokohama.
Vittorio Magnago Lampugnani
Toyo Ito: Transfinity
Fà un giro nelle parti più trendy di Tokyo, lungo l'Aoyama Boulevard e poi giù attraurso Harajuku. Non potrai fare a meno di notare le ragazze vestite da 'nomadi urbani', fasciate da strati di pura stoffa che fluttuano nella brezza come vele. Una parata di colori, onde simili a pizzi, tessuti tradizionali scintillanti d'oro e d'argenlo così lucenti e sgargianti da non sembrare quasi più abiti. Quando i raggi del sole vi proiettano il loro gioco, queste donne scintillanti galleggiano a mezz'aria come prive di peso. L'ennesima nuova moda? In un certo senso, sì, ma quello che queste giovani donne hanno creato sorapponendo strato a strato di pura stoffa va al di là di un semplice fenomeno di 'look'.
Questi soffici, avvolgenti bozzoli non si limitano a vestire, ma danno forma nelle accoglienti pieghe a dei loro particolari rinfrescanti ambienti. Perciò, se è vero che questi costumi traggono ispirazione dal modo di vestire delle donne arabe e indiane che si velano dalla testa ai piedi e avvolgono i loro corpi nel aria, queste giovani trendy che si aggirano per le strade di Tokyo dovrebbero con pieno diritto essere considerate delle nomadi. Molto prima clte gli abiti abbandonassero le loro rivendicazioni di stile e negassero le loro fome, la città di Tokyo ha demolito il suo aspetto. È ormai impossibile parlare di semplici "scenari di strada" o di un "paesaggio urbano" globale, poichè ogni edificio rivaleggia con quello che sorge accanto in una violenta competizione d'interesse che preclude ogni armonia fra le strutture confinanti. Nessun individuo può riuscire a cogliere nella sua totalità quell'espansione assurdamente vasta che è Tokyo. Tuttavia non tutto è assoluto caos: anche in questo caso io posso percepire sulla città come una pura stoffa, una membrana, una "seconda pelle".
Contro tutto il diluvio di facciate e insegne che sopraffanno il pedone che passeggia nelle più importanti vie commerciali, contro tutte le merci accatastate le une sopra le altre, a un superiore livello emerge una splendida cortina di patchwork di seta. Ognuna delle miriadi di facciate, vetrine e insegne al neon forma un disegno ricamato o stampato che scintilla sutta superficie di questa pelle. Ci muoviamo nei reconditi recessi di questo tessuto, totalmente immersi nella coscienza di un immenso spazio-corpo. Giorno dopo giorno la città cresce sempre più indefinita, evolvendosi in un ambiente simulato decorato da sparpagliati frammenti caleidoscopici di luci e suoni, proprio come il nostro modo di vestire muta i suoi ben delineati disegni nella flessibile levità di un abbigliamento fluido. Perché dunque l'architettura si rifiuta ostinatamente di uscire dal suo guscio? Perché deve continuare a fare così pesantemente e volutamente mostra delle sue formalistiche realizzazioni?
Gli interni delle nostre case servivano un tempo ad avvolgere il corpo come vestiti e ad estenderlo, lo spezzarsi di quella connessione, ponendo il corpo in antitesi con lo spazio circostante, ha di fatto strutturato le nostre percezioni, dando vita all'architettura formale. L'atto di costruire qualcosa, e in special modo il gesto architettonico per eccellenza di redigere un progetto, ha sempre voluto dire sottrarre più spazio al corpo, e definire quello stesso spazio in termini di qualche altro dettaglio. Così l'idea fluida, rarefatta dello spazio-corpo si è irrigidita, oggettivata, è divenuta astratta, formale e si è costituita in quell'inaccessibile maestà che conosciamo sotto il nome di architettura.
Giorno dopo giorno la città cresce sempre più indefinita, evolvendosi in un ambiente simulato decorato da sparpagliati frammenti caleidoscopici di luci e suoni.
Da qualche parte nei meandri delle loro menti, gli architetti nutrono ancora questo sogno di gloria. Le loro costruzioni portano ancora carattere accuratamente annodate, si levano ancora inflessibili nella camicia di forza della storia mostrando al mondo esterno l'abito della festa. Mi riesce davvero arduo comprendere come una simile architettura possa adattarsi ai nostri giovani nomadi urbani. È proprio impossibile creare degli edifici luminosi, ariosi e piacevolmente scintillanti quanto le pure stoffe che essi indossano? In ogni epoca devono apparire degli ambienli che si dimostrino più vivibili e in sintonia con i tempi. Perciò le odierne tendenze, dall'abbigliamento e dall'arredamento fino all'insieme degli ambienti urbani, devono poter contare su spazi di un coerente, rilevante carattere. Sento che è attraverso questo processo di rarefazione e di liberazione dello spazio architettonico che riusciremo a creare un ambiente davvero 'transfinito' per i nostri giovani nomadi urbani.
Toyo Ito