Da breve passata in mano al governo democratico di Eric Adams, dopo il mandato del non amatissimo Bill De Blasio, New York deve molto alla sua configurazione attuale a Michael Bloomberg, che ne è stato sindaco fino al 2013. Durante i suoi due mandati, la corsa contro il cambiamento climatico è stato uno dei punti fissi della sua agenda. Un ruolo fondamentale nel progetto per rendere New York più ecologica l’ha avuto Rohit Aggarwala, che da poco tempo è Senior Urban Technician Fellow alla Cornell Tech e che per l’amministrazione Bloomberg era Special Advisor, nonchè a capo del C40 Cities Climate Leadership Group.
Il distaccamento tecnologico dell’università – unica Ivy League negli Stati Uniti ad avere anche programmi pubblici – ha il suo campus a Roosevelt Island, una sottile striscia di terra nell’East River tra Manhattan e il Queens, ex sanatorio e ospizio dei poveri di New York, collegata al resto della città da un’unica stazione della metropolitana, da una teleferica e dal traghetto, oltre che da un singolo ponte. Una New York parallela, quasi sospesa in una bolla temporale, in cui le strutture futuristiche del campus – situato nella parte meridionale dell’isola – appare come una sovrapposizione postmoderna.
“La comunità locale qui è molto consolidata, considerando che fino a venti anni fa potevi tornare in città solo grazie alla teleferica. Era come una piccola città”, racconta Aggarwala mentre passeggiamo per il campus. “Qui a Roosevelt Island ci sono tre aree di ricerca principali. La prima è tecnologia medica, poi il Center for Digital Life, e infine l’Urban Tech Hub, dove lavoro io”.
Il nuovo polo Cornell Tech fu inaugurato proprio da Bloomberg, parte del tentativo di creare posti di lavoro ma anche di creare un nuovo polo di ricerca e tecnologia attraente a scala globale. Tra gli edifici, un dormitorio – il più grande edificio passivo della città, il Tata Center progettato per resistere alle esondazioni dell’East River da Weiss/Manfredi e l’edificio principale, che ospita anche il Bloomberg Center.
“Nonostante le numerose università, New York non poteva ancora vantare l’equivalente di un MIT o una Stanford, un polo di ricerca ingegneristica che crea e attira imprese e startup” racconta Aggarwala. Dopo aver vinto il concorso, spiega, è stato ottenuto il permesso di costruire i nuovi edifici qui su Roosevelt Island, rispettando standard di energia molto alti. “Durante il cantiere di costruzione del campus tutti hanno dovuto imparare molto in fretta, non era l’approccio standard adoperato fino a quel momento.”
Una scommessa accademica basata sull’innovazione tecnologica che mette le sue radici ideologiche nelle sue stesse fondazioni. A pochi anni dalla sua inaugurazione la Cornell Tech si propone come una nuova voce nel panorama internazionale con una visione concreta di come funzionano le città e un vocabolario per pensare alle città come sistemi di sistemi, offrendo agli studenti la possibilità di studiare e creare una varietà di forme di tecnologia urbana, con particolare attenzione all'uso della tecnologia digitale per rendere le città più resilienti. Gli ultimi due anni di pandemia sono stati la prima sfida da affrontare, forzando non solo nuove metodologie di fare Accademia, ma anche potenziali strumenti per migliorare l’efficienza urbana. Ricordiamoci, però, che New York rappresenta comunque una delle metropoli più densamente popolate degli Stati Uniti.
La sfida, paradossalmente, è che le città verticali devono lavorare molto di più per diventare neutrali al carbonio rispetto allo sprawl della periferia
Potrà mai trasformarsi, quindi, in una città sostenibile? “La risposta è sì, ma ci vorrà un sacco di lavoro”, spiega Aggarwala. Che spiega un paradosso: il newyorkese medio ha un’impronta di carbonio che è circa un terzo di quella del resto degli statunitensi. “Sono abituati agli spazi piccoli, non hanno auto” continua il ricercatore. “La sfida, paradossalmente, è che le città verticali devono lavorare molto di più per diventare neutrali al carbonio rispetto allo sprawl della periferia”. In un paesaggio di case unifamiliari, infatti, basta che siano tutte munite di pannelli fotovoltaici, che le famiglie abbiano un veicolo elettrico a disposizione, e la periferia diventa sostenibile. “Ovviamente parliamo unicamente dell’impronta di carbonio.”
In città le cose sono più complicate. Soprattutto quando si parla di trasformazione. “New York è stata piuttosto aggressiva nel far passare leggi e lavori per richiedere efficienza energetica. Il problema è che qualsiasi cosa risulta difficile da fare”. Uno dei principali ostacoli, quindi, ad una possibile evoluzione in senso sostenibile della città è una burocrazia troppo severa e lenta. “Qualsiasi tipo di lavoro di costruzione è difficile, e molto più costoso che in qualsiasi altra parte degli Stati Uniti”. Le ragioni, spiega Aggarwala, “nessuno le capisce veramente”. E definisce questo come “il più grande problema che dovremo affrontare in termini di sostenibilità”. Inoltre c’è la sfida del sistema di trasporto. I costi di costruzione della metropolitana sono due o tre volte quelli di qualsiasi altra città americana, spiega. Forse tra i più alti del mondo. “C’è un esempio nel quartiere in cui vivo, nell'Upper East Side. Abbiamo appena esteso la metropolitana della Seconda Avenue. È la linea metropolitana più costosa del mondo, due miliardi di dollari al miglio. Probabilmente c’è bisogno di un paio di linee di metropolitana in più a New York, ma non il trasporto metropolitano non può essere l’unica risposta. Ad esempio penso che gli autobus elettrici siano uno strumento importante, ma concretamente preferirei che la gente usufruisca di autobus diesel, piuttosto che guidare un’auto.”
Parlando con Aggarwala emerge come un paragone diretto con la politica per la sostenibilità attuata per esempio in Europa risulti sempre complicato da fare, considerando anche i costi nettamente diversi: negli Stati Uniti da sempre si preferisce l’utilizzo del gas – reso più economico dalla legalizzazione del fracking. “Penso che l’Europa sia tradizionalmente molto più veloce nell’adottare nuove tecnologie. Negli Stati Uniti, abbiamo appena iniziato a pensare alla costruzione in legno per gli edifici alti, mentre in Norvegia, Svezia e Svizzera stanno già costruendo edifici di venti piani in legno. Penso di avere la sensazione che ci sia più progresso tecnologico in Europa, e comunque una maggiore attenzione alla gestione del consumo energetico.”
Un’organizzazione complicata e lenta, resa difficoltosa da costi ingenti che comporterebbe la rivoluzione di un’intera rete di infrastrutture. In questa prospettiva il ruolo della raccolta e dell’analisi dei dati diventa fondamentale per organizzare e gestire luoghi. Big data e Smart Cities sono due concetti che vanno di pari passo, considerando il potenziale della raccolta dati per migliorare la qualità della vita di una comunità, superando agilmente i timori persistenti sui costi.
L’opportunità della tecnologia urbana è come collegare il digitale con questi altri sistemi
Come potremmo usare questi strumenti per economizzare tutti gli sprechi nella complicata gestione di una metropoli? “Non ho mai usato il termine Smart City, non mi piace, parlo piuttosto di tecnologia urbana. Penso che ci siano alcune cose in cui i big datas ad esempio possano risultare utili. Ma per sfruttare a pieno un tipo di tecnologia predittiva e di raccolta dati richiederebbe un adeguamento normativo enorme. Ad esempio, a New York siamo obbligati a fare ogni cinque anni l’ispezione delle facciate. Potete immaginare che sia un’analisi non solo molto costosa, ma anche ingombrante a livello urbano: bisogna mettere delle impalcature per proteggere i pedoni intorno all’edificio. Se il Dipartimento dell’Edilizia affermasse chiaramente i requisiti dell’analisi, capiremmo effettivamente se un drone possa raggiungere o superare quello standard di sicurezza. E se la risposta è sì, allora avremmo tutti enormi vantaggi. Ma ciò richiede un cambiamento di pensiero e richiede un livello di creatività che non sempre si vede nel governo della città. Una soluzione digitale per te non deve solo sostituire gli umani.”
Un’ulteriore problema verso l’adeguamento tecnologico negli Stati Uniti è la mancanza di una chiara legge sulla privacy dei dati raccolti online. “E questo è davvero un grosso problema” spiega Aggarwala. “È stato analizzato come una comunità di persone che sono preoccupate per la privacy, sono contro la tecnologia stessa.E ciò rende tutto molto più controverso del necessario. Perché la preoccupazione immediata è quella di come verranno protetti i dati. Penso che risolvere questo tassello eliminerebbe un sacco di domande e all’improvviso sarebbe molto più facile ottenere il sostegno pubblico per l’utilizzo di telecamere per far rispettare le violazioni del traffico, utilizzando la raccolta di molti più dati su ciò che sta accadendo in strada, perché la gente si sentirebbe a suo agio”.
La situazione che Aggarwala delinea è quella di una città, New York, in cui l’innovazione è resa estremamente complicata dalle pastoie burocratiche e dagli interessi dei singoli o dei gruppi. Un ostacolo per una città più moderna e sostenibile. Intanto a Roosevel Island però si lavora a nuove soluzioni per il futuro. “Qui abbiamo inaugurato quest’anno un master in Urban Technology”, spiega Rit. L’obiettivo del programma è quello di aiutare gli studenti ad andare in profondità su tecnologie e strumenti specifici restando consapevoli del contesto, sottolinea. “Così potranno capire non solo come funziona il digitale, ma come funziona la città in quanto comunità”. Il pensiero è di collegare il vecchio e il nuovo, proprio come succede qui sull’isola. Molti nelle startup si concentrano sulla componente digitale delle cose, ma le città rimangono indietro come infrastruttura analogica, dai sistemi fognari e geotermici, agli edifici. “L’opportunità della tecnologia urbana è come collegare il digitale con questi altri sistemi.”
Immagine di apertura: Cornell Tech, Roosevelt Island, New York