Angelos Tzortzinis è un fotografo freelance greco che su rivoluzioni, repressioni e rifugiati lavora da quasi dieci anni, con storie e pubblicazioni che gli hanno valso numerosi premi, tra cui Best Wire Photographer per Time Magazine nel 2015, POYi, Sony award e Visa Pour l’Image. Mentre affinava il proprio stile e costruiva il suo approccio etico con reportage sulla crisi economica in Grecia e sulla Primavera araba in Egitto e Libia, Tzortzinis ha cominciato a focalizzare tutto il suo interesse su progetti a lungo termine che ruotano attorno a migrazione e accoglienza, con una particolare attenzione alla rappresentazione dei rifugiati, dei loro desideri e delle loro aspettative: in poche ma non semplici parole, sull’aspetto più squisitamente umano delle storie in cui si è caparbiamente imbattuto. Quest’anno il suo Trapped in Greece, realizzato principalmente sulle isole di Lesbos e Somos, gli è valso un World Press Photo come storia proprio nella categoria Long–Term Projects.
Disillusione e speranza dei rifugiati nelle immagini di Angelos Tzortzinis
Il fotografo greco, vincitore quest’anno di un World Press Photo, racconta da sempre la vita dei migranti costretti nei campi profughi europei. L’intervista.
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- Raffaele Vertaldi
- 22 settembre 2021
Per Trapped in Greece ti sei servito di un formato panoramico che ricorda Koudelka, ma le tue inquadrature hanno una dinamicità che dà quasi l’impressione di essere di fronte a quelle di un film. E, forse per via della tematica o per il fatto che sei greco, viene in mente Angelopoulos…
L'importante lavoro di Koudelka ha ispirato molti fotografi. Per quanto mi riguarda l'ispirazione è venuta dai registi cinematografici, come hai osservato molto correttamente. Theo Angelopoulos è un regista greco molto importante che mi ha influenzato, ma quelli che mi hanno ispirato a creare questo progetto sono stati il regista polacco Paweł Aleksander Pawlikowski e il direttore della fotografia Lukasz Zal. Ida e Cold War mi hanno insegnato come una storia semplice possa diventare un capolavoro. Anche a causa della dislessia, un disturbo dell'apprendimento di cui soffro, ho sempre bisogno di lavorare entro i limiti che mi pongo. Quindi, l'inquadratura panoramica mi ha dato l'opportunità di lavorare in questi limiti specifici e mi ha aiutato a essere concentrato sul progetto. Chi ha avuto la stessa diagnosi può capire cosa intendo.
Lavori al tema delle migrazioni da molti anni: quali sono gli episodi che ti hanno toccato più profondamente?
Un momento molto difficile per me è stato quando i paesi dei Balcani, la rotta preferita per il nord Europa, hanno chiuso le frontiere, intrappolando più di 90.000 persone in Grecia. In quel periodo mi trovavo a Idomeni, un villaggio vicino al confine tra Grecia e Macedonia del Nord, in un campo allestito con mezzi di fortuna, dove i rifugiati e i migranti vivevano in condizioni tragiche. Queste persone avevano perso la speranza ed erano devastate, perché non potevano continuare il loro viaggio verso un altro paese europeo.
Un altro episodio tragico è stato quando una barca con rifugiati e migranti è affondata mentre tentava di raggiungere l'isola greca di Lesbo dalla Turchia, il 28 ottobre 2015. Ho visto medici e paramedici che cercavano di rianimare i bambini, ho visto genitori che tentavano di elaborare la perdita dei loro figli. Non potevo fare nulla per aiutarli, mi sentivo impotente.
Hai raccontato il dramma dei profughi da diverse prospettive. In cosa è diversa dalle altre l’emergenza umanitaria attualmente in corso in Afghanistan?
Non posso fare differenza tra le crisi dei rifugiati, riguardano tutti gli esseri umani. L'unica cosa che cambia è il legame che ho con il mio paese. Per questo motivo, la maggior parte del mio lavoro finora ha riguardato la Grecia, il luogo dove sono cresciuto e vivo. Le vite delle persone che ho raccontato durante tutti questi anni si stanno evolvendo insieme alla mia vita, maturano e si modellano sempre più nel corso degli anni. Crescere in un quartiere di Atene dove si erano stabiliti dei rifugiati provenienti dall'Iraq, che di solito vivevano in cinque o sei tutti insieme in una piccola stanza in condizioni insalubri, e fare amicizia con loro, mi ha portato a conoscere il loro modo di vivere fin dalla più tenera età. Vorrei anche sottolineare che vivevo e vivo ancora nel cuore del problema ogni giorno, non sono solo un visitatore casuale.
Se c’è una cosa che accomuna Biden e Trump è aver decretato, in discontinuità con Bush e Obama, la fine dell’ipocrisa per cui la missione degli Stati Uniti era quella di esportare la democrazia in tutto il mondo. Quanto era prevedibile quel che sta accadendo? E cosa ti aspetti che succeda, ora?
Come fotografo il mio lavoro è quello di raccontare le questioni sociali in profondità, non di prendere posizione sulle decisioni politiche.
Casi come quello di Danish Siddiqui, ma anche di Tim Hetherington, Andy Rocchelli e altri prima di lui, ci ricordano come mentre per certi versi la fotografia documentaria sta diventando sempre più concettuale—i suoi confini resi sempre meno nitidi grazie alle innovazioni tecnologiche e alle evoluzioni culturali—molti fotografi continuino a perseguire una professione che non può fare a meno di un rapporto diretto tra produzione delle immagini e realtà rappresentata, anche a costo di rimetterci la vita. Di loro, però, spesso si parla solo quando se ne vanno. Cosa spinge, oggi, i fotoreporter?
I grandi fotografi che citi, a cui aggiungerei Chris Hondros, si sono dedicati al loro lavoro per molti anni, era la loro vita e ne conoscevano i rischii, questa è la differenza rispetto a me oggi. Se vuoi essere un fotografo di guerra devi dedicare la tua vita al tuo lavoro. I fotografi vogliono essere in prima linea per poter scoprire la verità da soli. Per me, questo è ciò che spinge i fotoreporter a coprire guerre e conflitti.
Un’ultima domanda: secondo te, la fotografia può fare qualcosa di buono per i migranti?
Non sarebbe onesto dire che la fotografia può cambiare il futuro di queste persone. Sicuramente ci deve essere ottimismo nella vita, ma la gente continua a morire nel tentativo di raggiungere una vita migliore. Non sono ancora in grado di vedere la prospettiva di un futuro migliore, ma certamente lo spero. Perciò continuo a lavorare a questo progetto. Per me è molto importante che la gente venga a sapere cosa sta succedendo e sia informata su questo grave problema sociale; il nostro obiettivo dovrebbe essere, attraverso la fotografia, quello di rappresentare la storia da un punto di vista personale cercando di rivelare ciò che vi si nasconde dietro.
Un ragazzo rifugiato guarda oltre la recinzione di confine che separa la Grecia dalla Macedonia, alla stazione di confine della Grecia settentrionale di Idomeni, il 2 marzo 2016.
Più di 90.000 rifugiati e migranti bloccati in Grecia, dopo la chiusura delle frontiere.
Tombe di rifugiati, la maggior parte non identificati, che sono annegati mentre attraversavano il Mar Egeo dalla Turchia a Lesbo, il 29 febbraio 2016.
Secondo l'Organizzazione internazionale per le migrazioni, più di 3.770 persone hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere l'Unione europea nel 2015.
Una donna rifugiata tiene il suo bambino mentre è seduta dentro una tenda durante la pioggia in un campo di fortuna al confine greco-macedone, vicino al villaggio di Idomeni il 15 marzo 2016.
Una famiglia di rifugiati durante gli scontri con la polizia vicino a un campo profughi nel villaggio di Diavata, vicino a Salonicco, il 6 aprile 2019.
Il 4 aprile 2019, circa 2000 migranti hanno annunciato la loro intenzione di marciare dal porto settentrionale greco di Salonicco al confine con la Macedonia settentrionale, circa 60 chilometri a nord. Poi vogliono proseguire verso l'Europa centrale.
Un cancello del passaggio ferroviario appena chiuso al confine greco-macedone accanto a un campo profughi Idomeni, il 5 marzo 2016.
Più di 90.000 rifugiati e migranti sono bloccati in Grecia, dopo la chiusura delle frontiere.
Un rifugiato legge una rivista accanto al fuoco nel campo profughi sull'isola greca di Samos, il 26 marzo 2019.
Circa 4500 rifugiati e migranti vivono lì. Sono stati costretti a stabilirsi intorno al cosiddetto hotspot dell'isola, una ex prigione che, dietro le sue recinzioni in acciaio rinforzate con filo spinato, offre spazio per appena 650 persone.
Rifugiati al campo di Eleonas, dove trovano riparo per lungo tempo, ad Atene il 15 novembre 2018.
Un rifugiato cerca di tenersi caldo accanto a un fuoco in una fabbrica abbandonata che funge da casa temporanea per i rifugiati a Patrasso, nel sud-ovest della Grecia, il 1 dicembre 2018.
Eppure, alcuni non hanno perso la speranza. Alcuni cercano di entrare di nascosto nei traghetti al porto occidentale di Patrasso per arrivare in Italia, un passaggio pericoloso.
L'accampamento di Moria sull'isola di Lesbo il 13 settembre 2020, pochi giorni dopo che un incendio ha distrutto il campo profughi.
Un uomo e una bambina siedono sui loro averi mentre altri rifugiati e migranti del campo di Moria protestano sull'isola greca di Lesbo, l'11 settembre 2020, pochi giorni dopo che un incendio ha distrutto il campo profughi.