Fabio Sandri, maestro dell’off-camera, tecnica che non prevede l’utilizzo della macchina fotografica, presenta sette installazioni che si integrano e instaurano un dialogo con lo spazio di Gaggenau Milano. A cura di Sabino Maria Frassà, direttore artistico di Cramum, “IO / N” esplora una condizione di coappartenenza e co-esistenza tra essere umano e spazio urbano, sociale e architettonico. Sulla complementarietà con gli elementi presenti nello showroom giocano le Stanze di Sandri, opere in grado di evocare suggestioni e trasformare un pavimento in lente fotografica; negli Autoritratti l’immagine finale è nelle mani dell’osservatore e dei suoi movimenti, mentre l’opera site-specific INCARNATO – FILTRO è un autoritratto collettivo in divenire, che nasce ed evolve nel corso della mostra. "IO / N", visitabile fino al 23 settembre 2021, fa parte di “Extraordinario”, ciclo artistico che vedrà il susseguirsi di quattro mostre nel corso del 2021 negli spazi Gaggenau di Milano e Roma. La brand manager Erika Sagripanti spiega a Domus che Extraordinario trae ispirazione dagli elementi che fanno parte del dna dell’azienda, e nasce come una vera e proprio ripartenza del progetto arte dopo un anno in cui le limitazioni dovute alla pandemia hanno messo alla corda l’intero settore culturale. In questo primo episodio, Sandri ci accompagna in un’inedita esplorazione di spazio e materia, un itinerario che non vede l’uomo protagonista ma parte di una totalità a lui complementare, in cui alla luce è affidato il disvelamento del reale e il medium fotografico si fa impronta, impressione. “Con il curatore Sabino Maria Frassà abbiamo concordato questo titolo per evidenziare un certo approccio rispetto alla rappresentazione del reale, intendendo per reale i corpi e lo spazio, in una dialettica tra l’IO e il NOI, ma anche la fusione dell’io con il tutto quando scompare la macchina fotografica e il fotografo come soggetto tende a farsi da parte”, racconta l’artista.
Per una “fotografia dell’immanenza”: le impressioni off-camera di Fabio Sandri
L’artista accompagna i lettori di Domus in un’inedita esplorazione dello spazio; dal rapporto tra luce, tempo e materia non emerge un'immagine ma l’essenza della stessa. In mostra presso Gaggenau, Milano, fino al 23 settembre.
Foto: Francesca Piovesan
Foto: Francesca Piovesan
Foto: Francesca Piovesan
Foto: Francesca Piovesan
Foto: Francesca Piovesan
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- Clara Rodorigo
- 23 luglio 2021
- Gaggenau, Milano
- mostra
- 2021
I lavori esposti testimoniano un utilizzo del mezzo fotografico volto non a raffigurare la realtà ma a restituirne un'impressione, quasi un ricordo. Ma in che modo?
L’intenzione è di indicare un altro modo di vedere e di cercare di catturare un’essenza, tramite un linguaggio concreto-fisico-materico di riduzione estrema costituito dal materiale fotografico, che io considero un materiale plastico ancora prima che visivo. Sabino la definisce con efficacia una “fotografia dell’immanenza”, ovviamente un’attitudine, un modo di pensare, che vuole andare al di là un’autoreferenzialità che poteva essere indotta da titoli di alcuni miei lavori come, IO o Autoritratto. Un “noi” presente nella serie delle Stanze che è intriso di spazio e scevro da connotazioni antropomorfe, suggerito anche dalla lettura al contrario del titolo, che rifugge così da una connotazione intimista che non mi appartiene.
Io cerco di registrare la realtà attraverso la luce, l’1 a 1 che tutte le mie opere implicano prevedono un coinvolgimento fisico ancor prima che emotivo, diretto e concreto ancor prima che simbolico e figurativo. La figura umana è per me, in primo luogo, uno “stare nello spazio” di cui finisce per esserne uno degli elementi caratterizzanti. Questa scala 1 a 1 delle opere è la loro concretezza e anche rimanda alla particolarità individuale di ognuno, inevitabile e casuale come lo possono essere i perimetri dei luoghi in cui ci troviamo, o la forma della nostra immagine che cerchiamo di determinare nell’autoritratto. La considero anche una intenzione costruttiva, una effettività dei dati che prescinde da particolari interpretazioni personali, riguarda sia l’uno individuale che l’uno collettivo.
Tramite il grande formato e l’off camera le sue opere catturano la complessità del reale senza immortalarla. Cosa significa per un fotografo mettere da parte la macchina fotografica? La tecnica non è mai il fine ma il mezzo attraverso il quale esprimersi, ci possono essere diverse motivazioni per la scelta o la rielaborazione di una tecnica… Mi sono diplomato in pittura con un Maestro come Vedova e per quanto riguarda la fotografia sono un autodidatta. Sono arrivato alla fotografia per il mio forte interesse alla carta fotosensibile, alla sua particolare matericità e soprattutto all’implicito automatismo di generare un’immagine per contatto con la materia “luce”. Del resto fin dai primi lavori pittorici sono stato interessato a ricercare un meccanismo - e non una macchina - che permettesse una genesi dell’immagine, svincolata da particolari gestualità grafiche o matericità della superficie. Ricercavo e ho trovato con le tecniche off camera il modo per cui l’immagine si formasse quasi da sé. Come ha detto giustamente il curatore il mio essere fotografo è un po’ l’essere regista della luce. Il non utilizzare l’apparato fotografico o comunque il rinunciare all’ottica della macchina è dovuto proprio al fatto che ho cercato sempre di evidenziare dei principi essenziali, iniziali, di genesi semplice dell’immagine, principalmente basati sull’impronta diretta, sul contatto, sul rapporto 1 a 1, sull’accumulo di tempo… Dunque il mio è un lavoro più plastico “a mani nude” piuttosto che di elaborazione/composizione dell’immagine in senso ottico o comunque di ripresa con la fotocamera. Nelle mie opere Stanze, di cui ci sono tre esempi emblematici in mostra, il pavimento diviene fotocamera che vede in due direzioni contemporaneamente, l’obbiettivo coincide con l’intero spazio e la lente coincide con la superficie calpestabile. Allo stesso modo negli autoritratti ho utilizzato in modo particolare la fotocamera, cioè una combinazione di videocamera e proiettore, ma il lavoro è rivolto a produrre un’impronta-deposito di questa somma di strumenti e dell’azione del fruitore-autore dell’autoritratto, dove l’immagine finale è solo un resto del lavoro, cioè l’opera e anche e soprattutto il lavoro o l’esperienza che fa il fruitore cercando di stare fermo per 20 minuti per cercare e costruire la propria immagine. In questo caso è il tempo “lungo” richiesto dalla carta fotosensibile a permettere di metter in moto questo tipo di processo, di implicazioni e di risultato.
L’interazione tra luce e materia produce impronte che non costituiscono una “rappresentazione retinica” delle figure ma ne indagano l’essenza. Sfumato nei tratti ma indelebile nella sua fisicità, qual è in questo contesto il ruolo della figura umana? La forma umana è ovviamente quella di partenza, il primo perimetro, quello che meglio conosciamo, poi viene il perimetro della stanza, che sono perimetri indefiniti e vari, poi lo spazio somma di tutto, il NOI non antropomorfo che catturo con l’opera site-specific “FILTRO-INCARNATO”. La costante del mio lavoro è proprio questo lavoro sulla fisicità del reale, un lavoro concreto di ricerca di una forma che disveli il reale per avvicinamento, per contatto, per accumulo, per concentrazione, grazie a determinati processi di fotosensibilità. L’indefinizione della forma è l’apertura ad una latenza che è inevitabile e rappresentativa, indeterminata e determinata.
Negli “Autoritratti” il pubblico diventa parte dell’opera tramite l’impronta di una videoproiezione su carta fotosensibile. In che modo il tempo interferisce in questo ciclo di lavori?
Il tempo ovviamente connaturato alla fotografia in tutte le sue possibili declinazioni… Dal momento che mi interessa la fotografia come disvelamento fisico del reale, mi interessa il materiale fotografico, inteso come concreto oggetto-supporto fisico anche perché è questo precipitato di tempo, oltre che di memoria di materiali e iconografie. Connota proprio “questa materia”.
In questi lavori c’è un tempo di costruzione-impressione di circa 20 minuti, in cui è richiesta una resistenza fisica del soggetto, un “tentativo di stasi” per definire la figura. Un tempo che se esperito in questo sforzo si cambia la sua percezione e la sua durata che diviene soggettiva e non misurabile con i secondi... possono sembrare molti o pochi questi minuti dato che si entra in una particolare relazione psicologica con questa “produzione di immagine” a tu per tu con il proprio sdoppiamento. Inoltre, il tipo di immagine finale è fatta di una trama che concentra per accumulo infiniti attimi e in qualche modo va oltre e dentro alla superficie, proprio con una trama “cezanniana” o “giacomettiana” se così si può dire, mostra un particolare principio di costruzione.
- IO / N
- Sabino Maria Frassà
- fino al 23 settembre 2021
- Gaggenau DesignElementi Hub, Corso Magenta, 2, 20123 Milano MI
- Extraordinario
- Gaggenau e Cramum