“Le biennali sono dispositivi di rilevamento della realtà, sentono il bisogno di essere reattive. Quando è scoppiata la pandemia dovuta al Covid-19, avevamo già stabilito il tema fondante della Biennale, Bodies of Water. Si riflette su come i corpi sono costituiti dal modo in cui si attraversano e sono attraversati da altri corpi”. Secondo Andrés Jaque – chief-curator della Biennale d’Arte di Shanghai 2021, in mostra fino al 25 luglio 2021, insieme ai curatori You Mi, Marina Otero Verzier, Lucia Pietroiusti e Filipa Ramos – i corpi sono sempre collettivi e molteplici e operano come ecosistemi, come reti, come alleanze trans-specie, come ambienti e infine come clima. “Queste forme di unione in acqua rappresentano i luoghi in cui, ad oggi, la politica viene attuata e contestata”, continua. Essendo questo il fulcro della Biennale, l’emergenza provocata dalla pandemia l’ha resa ancora più improrogabile. Nel momento in cui le biennali e gli eventi artistici in generale venivano cancellati e rimandati, il team di curatori ha ritenuto che la voce e il lavoro degli artisti fossero necessari.
“La pandemia non poteva essere affrontata in modo tecnocratico. Le capacità investigative, ricostruttive e sensoriali degli artisti non potevano essere messe a tacere”. In un mondo che affronta molteplici crisi, i cinque curatori hanno collaborato con la Power Station of Art (il museo che organizza la Biennale) per renderla un processo in crescendo. “Con processo in crescendo intendevamo un processo di una durata pari a 9 mesi nei quali la Biennale si sarebbe espansa. Un’evoluzione che a partire da novembre ha mobilitato artisti, attivisti, studiosi, scienziati e la città di Shanghai in generale per lavorare insieme allo sviluppo delle opere che sono ora presentate”. Questa Biennale ha permesso la creazione di 33 nuove commissioni, un qualcosa senza precedenti nella storia della Biennale di Shanghai, come spiega Jaque, e che la rende un ricco ecosistema della capacità dell’arte di operare nei tempi modellati da stati di vulnerabilità umana e più che umana.
Il titolo della 13esima Biennale di Shanghai è Bodies of Water. È un modo per suggerire nuove modalità in cui i corpi coesistono, oltre i confini della carne e della terra, e per esplorare forme di solidarietà fluida. Potrebbe chiarire questa idea di coesistenza?
Le idee neoliberali hanno imposto l’individualità mediante la caratterizzazione della vita come individuale, autonoma e chiusa. Questo culto profilattico dell’individualità non è in grado di dare un senso al mondo in cui viviamo oggi. Proponiamo di riflettere sulla vita come conseguenza di flussi trans-scalari che superano la divisione tra esseri e ambiente. Come esseri viventi, non abitiamo ambienti, siamo ambiente. Artisti come Ana Mendieta, Gou Fengji o Pepe Espaliú hanno anticipato tale concetto negli anni ‘70, ‘80 e ’90 e le loro opere sono state diffuse nel contesto del femminismo e dell’identità queer. Ora avvertiamo che pensare e agire in maniera ecologica, implica percepire l’identità queer della corporeità.
Proponiamo di riflettere sulla vita come conseguenza di flussi trans-scalari che superano la divisione tra esseri e ambiente. Come esseri viventi, non abitiamo ambienti, siamo ambiente.
La Biennale esplora forme divergenti di acquaticità, dall’accelerazione della crisi climatica all’attuale pandemia globale. Come hanno affrontato questi temi gli artisti? Che tipo di format e mezzi di comunicazione ha deciso di esporre?
La Biennale presenta il lavoro di 64 artisti, in dialogo con dispositivi tecnologici e scientifici nati in epoche diverse, pensiamo al più antico: una roccia di sedimento del 60.000 a.C. Queste opere non illustrano il tema della Biennale, ma piuttosto lo espandono, si sintonizzano con esso, partecipano senza uniformarvisi. Cecilia Vicuña ha lavorato con donne di diverse comunità lungo il fiume Yangtze per realizzare un Menstrual Quipu, un monumentale dispositivo scultoreo collettivo che registra il modo in cui le mestruazioni organizzano il tempo di una collettività nella tradizione del quipu, in quanto le comunità andine se ne servono per regolare il corso della loro realtà condivisa e il legame con altre forme di vita. Allo stesso tempo, Carlos Casas ha studiato il modo in cui i sismografi di tutto il mondo hanno registrato l’eruzione del Krakatoa a Rakata nel 1983. Utilizzando un sistema molto sofisticato per riprodurre le vibrazioni, ha installato un facsimile sonoro e vibratorio dell’eruzione all’interno della canna fumaria della Power Station of Art. Essendo questo il primo evento climatico registrato a livello globale, il lavoro di Casas permette di comprendere la portata della crisi climatica e come ci si sente a perdere il senso di sicurezza e di radicamento. Inoltre, consente ai corpi umani di percepire la crisi climatica non come un concetto astratto, bensì come processi di cui facciamo parte. Tale lavoro permette la transizione dei corpi come esseri sensibili al clima e questa capacità dell’arte di produrre realtà alternative e di stabilire una connessione tra ambiente e corpo rappresenta un’importante componente della Biennale di Shanghai.
Il suo lavoro è ibrido, siamo nel mezzo, nell’intersezione tra architettura e arte. Esploriamo il modo in cui i corpi, le tecnologie e gli ambienti convergono in alleanze trans-specie. È una buona modalità per esaminare la nostra epoca? Come si traduce nel format della Biennale?
Da un lato credo che nell’epoca in cui viviamo, modellata da crisi che includono incrinature disciplinari, possiamo operare solo nei confini e nelle intersezioni. Il clima e l’ecologia stanno plasmando la nostra esistenza e sono, in definitiva, paradigmi relazionali che dipendono dall’intreccio e dall’intersezionalità. Ad oggi, per essere rilevanti dobbiamo operare in modo intersezionale. Dall’altro, questo è ciò che architetti come Frederick Kiesler, Minnette de Silva, Lina Bo, Bernard Rudofsky o Cedric Price, solo per citarne alcuni, hanno fatto per affrontare la necessità non solo di emergere come reali, ma anche di intervenire sui contesti in cui la loro azione è stata messa in atto.
La Biennale è sensibile al modo in cui l’arte costituisce e attraversa la vita stessa e alle sue capacità di riparazione corporea, trasformazione e dissidenza. Questo concetto è legato a un’idea di conflitto? Cosa significa la parola conflitto negli scenari della cultura contemporanea?
La Biennale si introduce nelle strutture in cui si sviluppano le società e gli ecosistemi. Occupiamo gli schermi e le applicazioni della metropolitana di Shanghai, canali televisivi come DocuTV e DragonTV, il curriculum di sette università, tra cui la School of Philosophy della storica Fudan University e lo Shanghai Institute of Visual Arts. Tutto questo in un impegno affinché l’arte permei le infrastrutture dove la vita si svolge. Queste infiltrazioni hanno preso la forma di dissidenze e polemiche, ma anche di nuovi consensi o alleanze. In definitiva, la Biennale indica in gran parte uno spostamento dalla politica parlata dell’agonismo a forme corporee di alleanza dissidente. Viviamo in un’epoca in cui la politica è biologicamente incorporata piuttosto che parlata e opera mediante una composizione alternativa piuttosto che per opposizione.
Andrés Jaque è architetto, scrittore e curatore, fondatore dell’Office for Political Innovation di New York e direttore dell’Advanced Architectural Program della Columbia University. I suoi libri includono Superpowers of Scale e Mies y la Gata Niebla. Ha anche co-curato Manifesta 12, “The Planetary Garden” a Palermo nel 2018.