Il termine Antropocene non ha fatto nemmeno in tempo a sedimentare nel nostro lessico, che una serie di definizioni alternative – supportate via via da concetti, teorie e affermazioni sempre più stimolanti – già ne minano alla base la validità.
Al fortunato neologismo coniato da Crutzer e Soermer all’inizio del millennio, diventato poi virale, si sono nel tempo affiancati, con più o meno successo, l’Econocene di Norgaard, il Pirocene di Pyne, il Piantagionicene di Tsing, il Crescitacene di Chertkovskaya e Paulsson, e infine il Capitalocene del sociologo inglese Jason W. Moore (che nel criticare e stigmatizzare tutte le altre definizioni, riconosce all’Antropocene quantomeno «la potenza della sua narrazione [e] la virtù richiesta a tutte le Grandi Idee: il tempismo»).
E se del resto la teoria destinata a mettere definitivamente in crisi tutte le altre è molto probabilmente quella degli iperoggetti di Timothy Morton, che in qualche modo incrina il sistema stesso in cui l’uomo si pone come unico depositario del diritto di definire il mondo, è d’altronde alquanto evidente quanto siano proprio le azioni antropiche—di cui, ad esempio, l’iperoggetto rappresentato dal riscaldamento globale sarebbe una diretta conseguenza—a favorire processi come quello del cosiddetto spillover, quasi certamente alla radice della più recente–come in passato di più d’una—pandemia.
Fin dal titolo del suo ultimo progetto, la fotografa portoghese Karina Castro sembra non avere dubbi: Human Domination on Earth è infatti una riflessione visiva, pacata ma incisiva, che ruota attorno alle evidenze dell’impatto antropico sul paesaggio. Col passo lento dei lavori a lungo termine, mossi da teorie la cui validità deve essere necessariamente verificata sul campo, la ricercatrice visuale di base a Milano sta collezionando una lunga serie di esemplificazioni concrete di come l’uomo abbia modificato, stia modificando e sia avviato a modificare il pianeta sul quale è iniziata—e, forse, terminerà—la sua evoluzione.
Alcune delle fotografie riflettono una specifica relazione tra contenuto e contenitore, e sono il frutto di una selezione elaborata in fase progettuale. In altre invece, e qui sta una delle particolarità più interessanti del progetto, il rapporto tra significato e significante vive di una maggiore leggerezza, di una capacità sintetica—ai limiti della stilizzazione—che, seppure ancora fortemente esemplificativa, esprime paradossalmente un fortissimo potenziale metaforico.
Percorrendo un solco già tracciato da maestri come Robert Adams, Edward Burtynsky, Richard Misrach o Armin Linke, e affiancandosi ad autori più giovani e promettenti come Lucas Foglia, Charles Xelot, Matjaz Krivic o Yan Wang Preston o i nostri Alessandro Grassani, Luca Quagliato, Marco Zorzanello o Marina Caneve, Castro attraversa territori contesi tra conservazionismo e sfruttamento, come la foce del Douro, la Serra de Arga o le spiagge di Matosinhos, in Portogallo, e opera piccole ma chirurgiche incursioni in Svizzera e in Italia, alla ricerca di circostanziati esempi utili alla sua ricerca, come siti di sversamento o di stoccaggio dei rifiuti.
Non mancano le ampie vedute di parchi eolici, foreste e coste minacciate o difese, una topografia borderline dove il confine tra operato negativo e positivo è a volte, anche volutamente, sfumato, così come è spesso sfumato il tono delle nostre intenzioni e delle nostre azioni.
Su tutto domina la sensazione che a interessare Castro in questo progetto, decisamente ongoing (in mostra dal 26 luglio alla Royal Geographical Society di Londra nella collettiva Earth Photo 2021), siano i luoghi dov’è in atto la silenziosa ma monumentale battaglia tra i due principali interessi dell’uomo, così simili eppure così stranamente in contrasto tra loro: quello della prosperità e quello della sopravvivenza.