Il suo è un approccio poetico alla fotografia di strada, da documentarista che ha sete d’umanità in un mondo che “non ha nulla a che fare con il reale, ma è infinitamente più interessante”. Doisneau, il brigante onirico, ribelle per natura e costantemente teso alla ricerca di elementi leggeri tra tradizione e anticonformismo, racconta, per immagini che diventano poesia, l'universo come vorrebbe che fosse. Tra i sobborghi grigi delle periferie parigine giocano bambini solitari e ribelli che hanno appena conquistato una fugace libertà dallo sguardo autoritario dei loro genitori. E poi gli scorci della campagna francese, gli incontri con gli artisti nei caffè, il mondo della moda. Spunti visivi offerti allo spettatore per viaggiare senza binari, o chiavi di lettura utili a comprenderle, perché ognuno possa portare la propria storia: “Non sono solito dare consigli o ricette: è necessario lasciare che la persona guardi una foto in un suo modo che la porti a definirla. Si deve offrire alle persone un seme che crescerà e aprirà la loro mente.” Sono 143 le opere in mostra, ospitate nelle sale di Palazzo Pallavicini fino al 20 settembre 2020 a Bologna, tutte provenienti dall’Atelier Robert Doisneau. L’esposizione è il risultato di un ambizioso progetto del 1986 di Francine Deroudille e della sorella Annette – figlie dell’artista – che hanno selezionato 450mila negativi, prodotti in oltre 60 anni di attività, in un meraviglioso racconto autobiografico: “Il progetto era contemporaneamente semplice e ambizioso: riassumere in poche immagini un’opera fotografica – quella di nostro padre – che si era formata in oltre 60 anni. È stato nel baule delle stampe vintage che abbiamo fatto la nostra prima selezione, mia sorella Annette e io. La scelta è stata istintiva e rapida, dettata dalla volontà di raccogliere fotografie fondamentali e associarle a scatti meno conosciuti, che avrebbero testimoniato il suo fototropismo verso le bellezze della vita quotidiana più ordinaria. Senza volere, abbiamo raccontato la sua vita”.
“Robert Doisneau, mio padre, non odiava nulla tranne l’autorità”
Sono 143 le opere in mostra, ospitate nelle sale di Palazzo Pallavicini fino al 20 settembre 2020 a Bologna, tutte provenienti dall’Atelier Robert Doisneau, dove abbiamo incontrato la figlia del celebre fotografo francese.
© Atelier Robert Doisneau
© Atelier Robert Doisneau
© Atelier Robert Doisneau
© Atelier Robert Doisneau
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- Ginevra Barbetti
- 10 luglio 2020
Doisneau, nel lavoro, rifiutava quei criteri già stabiliti che in qualche modo avrebbero “macchiato” l’emozione: e in famiglia, che padre era?
Respingeva, nella sua attività come nella vita di tutti i giorni, regole che gli sembravano assurde, pur avendo idee ben definite. Voleva che la fantasia fosse fortemente presente, sempre. Anche se in nome della fecondità creativa non faceva proprio niente. Al contrario, era una persona molto rigorosa e responsabile. Aveva un atteggiamento rassicurante dato dal suo attaccamento ai valori fondamentali: amore per il lavoro, attenzione nei confronti degli altri, lealtà verso chi gli stava intorno. Ci sentivamo al sicuro con lui, divertendoci molto, e questo rafforzava la nostra solidità comportamentale in diversi contesti. Era esattamente la stessa persona nell'esercizio della sua professione, come in famiglia, aveva identiche qualità, apparentemente molto contraddittorie: creatività, libertà e indipendenza. Mettendo nella sua attività un impegno e un’attenzione costante. La sua benevolenza era nota a tutti, il ritratto che più spesso viene tratteggiato di lui è quello di un uomo gentile, pieno di umorismo e fantasia. Quella gentilezza e indulgenza per gli altri, avrebbero potuto far dimenticare la profondità di riflessione e lo spirito irriducibile di indipendenza che lo caratterizzavano. Non odiava nulla tranne l’autorità, aveva un profondo senso di derisione e favoriva sempre la disobbedienza.
Come alimentava la sua creatività?
Per rispondere a questa domanda, faccio un passo indietro. Forse il punto a cui è arrivato è stato una sorta di rivincita sui primi anni della sua vita, che non sono stati per niente facili. Vive la sua infanzia durante la guerra del 1914, un periodo come sappiamo particolarmente duro e tragico. Sua madre muore quando ha 7 anni, e l’ambiente in cui si trova gli sta tanto stretto da sentirsi soffocare. Così inizia a fotografare, incontra artisti, musicisti, pittori, libera il suo immaginario. Per lui è come scoprire la terra promessa. Da quel momento la creatività gli entra nella pelle: anche il più semplice dei lavori doveva permettergli di esprimersi, seppur nel modo più modesto. Non si è mai lasciato chiudere in vincoli imposti, salvaguardando la sua fantasia. E sempre in nome di una allegria disarmante e leggera.
La fotografia è l’arte dell’illusione. Ciò che conta è che condividere uno sguardo che può aiutarci a sopportarlo, questo reale. Di re-incantarlo, a volte, sia che ci si veda l’osservazione di una realtà malinconica o la testimonianza di un’irrefrenabile gioia di vivere, dipende dalla nostra storia
Quale aspetto del suo carattere riconoscete, adesso, come vostro?
Mi accorgo che in laboratorio, io e mia sorella, riproduciamo inconsapevolmente tutto quello che gli abbiamo visto fare. Serve molto impegno e dedizione per far funzionare il workshop senza intoppi, ma ho l’impressione costante che per lavorare bene sia imprescindibile una bella dose di gioia. E questo, come in molto altro, nostro padre è in noi. Nell’aria c’è sempre un grande impegno ma anche un assoluto distacco da quello che chiamo lo “spirito della serietà”. Come mio padre, non sopporto i dilettanti, così come non sopporto le persone che si prendono troppo sul serio. Lavorare molto, e divertirsi altrettanto, questo come principio fondante di vita.
Quanto è importante l’arte di re-inventarsi il reale?
La fotografia è l’arte dell’illusione. Ciò che conta è che condividere uno sguardo che può aiutarci a sopportarlo, questo reale. Di re-incantarlo, a volte, sia che ci si veda l’osservazione di una realtà malinconica o la testimonianza di un’irrefrenabile gioia di vivere, dipende dalla nostra storia. A ciascuno i suoi occhiali. Mio padre si è preoccupato per tutta la vita di offrirci un’immagine sopportabile di noi stessi, felice di regalarci un momento di grazia e amicizia. Non posso fare a meno di ascoltarlo mentre ci dice, usando le parole del suo amico Jacques Prévert: “dovremmo cercare di essere felici, se non altro per dare l’esempio”.
Questa mostra è talmente ricca di elementi da diventare un racconto autobiografico: come è nato il progetto dell’Atelier?
Quello che mi piace di più del lavoro di mio padre è che nelle sue foto ci sia tanta autobiografia quanta finzione. Di ognuna si potrebbe raccontare un aneddoto, anche perché scattava in ambienti vicini alla sua quotidianità, con persone che conosceva, quindi ricollegabili alla sua stessa storia. Pezzi di vita che diventano racconti, insieme a voler raccontare il suo mondo immaginario. “Il mondo che stavo cercando di mostrare era un mondo in cui mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili, dove avrei trovato la tenerezza che volevo ricevere. Le mie foto erano come la prova che questo mondo potesse esistere” disse a Frank Horvat nel 1990. Quindi non si trattava di descrivere il reale, ma d’inventarsi un contorno un po’ diverso. Questa è la “bugia-verità” che amo di più.
Qual era lo scatto al quale era più legato?
C’è una foto, in queste sale a Palazzo Pallavicini, che lui ha sempre inteso come autoritratto: è Il bambino farfalla. Un ragazzino che sembra volare via su uno sfondo nero, fangoso e scuro, tra Saint Denis e Aubervilliers nel lontano 1945. Credo che nell’immagine di questo ragazzino si sentisse rappresentato, 25 anni prima, a Gentilly.
E il personaggio ritratto che ricordava più frequentemente e con affetto?
I personaggi delle foto di mio padre sono davvero come membri della mia famiglia. Non ho mai incontrato Mademoiselle Anita, che ha fotografato nel 1951 al Cabaret La Boule Rouge, nel quartiere della Bastiglia. Eppure è una persona che è con noi da così tanto tempo, e ho la sensazione di conoscerla molto bene. Questa dimensione della fotografia m’interessa molto, questa presenza che si crea nella nostra vita per il modo in cui guardiamo i personaggi ritratti nelle fotografie. Dov’è il falso, dov’è il vero? C’è una dimensione teatrale molto forte e costante.
Era attratto anche da altre arti?
La letteratura, prima di tutto. Amava la parola scritta. Tra le sue più grandi amicizie ci sono quelle strette con scrittori. Blaise Cendrars, Jacques Prévert, Daniel Pennac, con il quale c’era una complicità incredibile. Anche lui aveva un discreto talento per la scrittura, arte che ha praticato molto negli ultimi anni della sua vita. Le sue foto in qualche modo sono narrazioni, storie. Del resto era molto più interessato a questa dimensione della fotografia, che alla composizione plastica. Il suo comportamento artistico girava volontariamente le spalle a qualsiasi raffinatezza formale, e permetteva all’imprevisto di intervenire come attore protagonista. Rifiutava l’esotismo, così come la fotografia di un reportage impegnato, che gli sembrava un’accusa brutale e talvolta teatrale. “La forma è lo sfondo che viene alla superficie”, diceva Victor Hugo. Per mio padre, ciò che contava era soprattutto lo sfondo. La forma era al servizio della narrazione, del contenuto.
In quale direzione si evolverà l’Atelier?
Il workshop è in continua evoluzione, anche in base alle richieste che ci vengono fatte. Negli ultimi anni, il settore che si è sviluppato maggiormente è quello delle mostre itineranti. E il mio desiderio è di avere il tempo necessario per continuare a creare nuove opportunità, arricchendo ulteriormente un ricordo tanto vivo quanto importante.
Robert Doisneau, Le baiser de l'hôtel de ville, Paris, 1950
Robert Doisneau, Mademoiselle Anita, Paris, 1951
Robert Doisneau, Be bop en cave, Saint Germain des prés, 1951
Robert Doisneau, L'information scolaire, Paris, 1956