Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1047, giugno 2020.
L’artista tedesco Anselm Kiefer è uno dei più fecondi e apprezzati artisti del nostro tempo. Data la varietà delle sue opere – per scala, linguaggio, tema, repertorio e riferimenti – è arduo darne una definizione d’insieme. Più che pittore e scultore, è un archivista in lotta contro l’oblio collettivo. Con la sua “architettura inversa” ricostruisce paesaggi, senza trascurare di scavare sottoterra con l’entusiasmo di un escapista: creazione e distruzione sono gesti creativi. Affronta i problemi difficili e controversi dell’identità nazionale nel Dopoguerra con il suo ‘arsenale’ di opere epiche ispirate alla complessa ricchezza della memoria, letteratura e mitologia. Facendo uso di materiali pesanti e sostanze pure, coglie l’indescrivibile, l’intangibile e perfino l’incomprensibile. La ricchezza in cui la sua opera si stratifica è inquietante e ipnotica, intima e monumentale. Ma forse sono i gesti di registrazione e documentazione a rappresentare il centro del suo metodo e a dare unità al suo lavoro. Ben prima del suo interesse nel misticismo della Kabbalah, della mitologia norrena, di Wagner, della Bachmann e di Celan, Kiefer possedeva un attento senso del luogo e viveva l’urgenza di catturare il suo mondo nei dettagli, come testimoniano gl’interessanti disegni infantili commentati dal padre. Comprendono la registrazione degl’interni della sua casa e diverse note sulle case attorno, perfino su una torre. In una lettera al direttore, Kiefer descrive il fascino che nutre per il processo del ricordo innescato da uno di questi disegni della sua casa e dall’esperienza di avere visitato di nuovo la casa sul Reno dove è cresciuto.
Caro David,
sei rimasto affascinato dal disegno che avevo fatto da bambino prima d’iniziare la scuola. Lo sono rimasto anch’io, ritrovando questi disegni della mia infanzia. Non lo dico per vantarmi, perché con l’autore di quei disegni non c’entro più nulla. Una volta iniziata la scuola, i disegni diventano acribici, mancano d’ispirazione. Non c’è più nulla di geniale.
Partiamo dalla posizione geografica della casa: si trova in un paesino non lontano dal Reno. Dalla casa si poteva raggiungere il fiume percorrendo circa un chilometro di strada sterrata che incrociava alcune antiche lanche del Reno. Da quel sentiero si udiva già il rumore pulsante dei diesel delle chiatte in lontananza. A dire la verità, questo sentiero che attraversava la lussureggiante pianura erbosa fluviale apparteneva all’abitazione, ma in primavera, quando il Reno era in piena in seguito allo scioglimento delle nevi alpine, il livello della falda freatica aumentava talmente da appropriarsi del sentiero e, non di rado, allagare anche la nostra cantina. In questo modo, dato che il fiume delineava il confine con il paese limitrofo, la nostra via di collegamento con la Francia non era più il sentiero, bensì le acque del Reno, che regolarmente facevano in modo che questo confine si spingesse fino alla nostra casa, o meglio: ci passasse proprio attraverso.
Perciò quando, tanto tempo dopo che ero andato via di casa, vi ho fatto ritorno per la prima volta, mi è apparso tutto così attuale. Era qui, adesso. Anzi, di più, era il futuro.
Così, questa casetta da cui non ci allontanavamo mai (i miei genitori non andavano mai in vacanza e non lasciavano mai il paesino, neanche per fare un giro in città), era collegata con il resto del mondo attraverso queste acque.
Davanti alla casa c’era un piccolo orto e, dietro, uno più grande, di cui purtroppo non c’è più traccia perché più tardi, quando ormai non abitavo più lì, vi fu costruita sopra una casa.
Il giardino però apparteneva alla casa, era una sorta di prolungamento. In quel giardino, per la gioia dei miei genitori, ero solito scavare dei piccoli tunnel e, prima che mio padre li richiudesse con la terra, ci nascondevo dentro messaggi sotto forma di disegni.
Te lo racconto perché, attraverso questa architettura sotterranea, cercavo di accedere a un nuovo mondo misterioso. Solo molto tempo dopo lessi il libro di Colson Whitehead La ferrovia sotterranea.
Ognuno ricorda luoghi particolari che hanno avuto una certa importanza nel proprio passato. È da questi luoghi e dal tempo a loro legato che scaturisce ciò che creiamo durante il corso della vita. “Non esiste novità se non nella memoria. Il nuovo nasce quando noi, che siamo il futuro, sappiamo rinunciare a esso... Il senso nullificante del ‘dialettico’...”. (Andrea Emo).
Due anni fa, rivedere la casa dopo molto tempo è stato uno shock. Come spesso succede, il ricordo dei luoghi dell’infanzia è più intenso se non ci si fa ritorno da adulti. Ritrovarsi faccia a faccia con questi luoghi spesso è una delusione. In questo caso, con l’abitazione di Ottersdorf, non è stato così. È stato uno shock. Entrare nuovamente in ognuna delle stanze, scendere giù in cantina, rivedere la dispensa, mi ha catapultato in un’epoca che ormai pensavo smarrita da tempo. Come un palinsesto architettonico, le diverse epoche giacevano una sopra l’altra, tanto unite da non passarci nemmeno un capello.
Quando ripenso a quelle stanze, dalle cui finestre in primavera penetrava il sole disegnando sul pavimento l’ombra a croce dei serramenti, e in estate i tulipani nel vaso di vetro che si schiudevano al calore... E in inverno il corridoio sempre un po’ inquietante che portava in cantina, col pavimento in terra battuta, dove si andava a prendere il carbone per la stufa o le patate.
Perciò quando, tanto tempo dopo che ero andato via di casa, vi ho fatto ritorno per la prima volta, mi è apparso tutto così attuale. Era qui, adesso. Anzi, di più, era il futuro. In quell’istante, mi sono sentito fuori dal tempo. Mi sono chiesto se fossi diventato padrone del tempo. Altrimenti è sempre il tempo che sembra determinare la nostra vita. L’io di allora e l’io attuale si sono fusi in un istante impetuoso. Il passato dell’oggetto era diventato per me il presente.
Per un istante mi è apparso tutto tanto prossimo quanto distante. Entrando nella casa di Ottersdorf ho provato un legame con tutto ciò che avevo davanti a me. Non rimpiangevo nulla del passato né mi aspettavo nulla dal futuro. In quell’istante avevo sconfitto il tempo.
Come nel libro di Alain-Fournier Il grande Meaulnes. In un attimo, aprendo la porta d’ingresso, ho visto tutto. Non più come divenire, non più legato alla storia, alla mia storia: mi sono trovato in una temporanea osservazione del divenire. Poi, entrando nelle stanze, salendo le scale fino alla dispensa e riscendendo fino in cantina, questa realtà totale si è sgretolata nuovamente.
Come quando si mette su un disco: il brano musicale che si sta per ascoltare è lì davanti a noi nella sua interezza, ma quando la puntina poggia sul disco la realtà totale si sgretola, trasformandosi in un progressivo divenire.
Osservare la cartina di un luogo dei ricordi, invece, è diverso: anche se rileggere i nomi familiari delle città e delle strade potrebbe suscitare forti impeti emotivi, tutto rimane su un piano più astratto. Si tratta, più che altro, di richiami.
Inizialmente, avevo pensato di ricostruire l’edificio, praticamente impacchettarlo e ricrearlo nel mio atelier a Parigi (come spesso era stato fatto nella zona con antiche case a graticcio per esporle in un museo). Mi è permesso di scherzare così con il tempo? Così decisi di riportarla allo stato architettonico originario.
Nel corso del tempo, infatti, essendo sempre stata abitata, era stata in parte distrutta. In primis c’erano da rifare le finestre, che erano state sostituite con vetri isolanti. Dovevano tornare quelle di una volta. In inverno, sopraggiunto il freddo, ricordo addirittura le cosiddette doppie finestre che aggiungevamo a quelle esistenti. Era una sorta di rito, come Natale o Pasqua. Poi bisognava demolire la sopraelevazione che era stata costruita in seguito (indicata nel disegno come ‘lavanderia’). Quell’ampliamento era stato effettuato per essere adibito a bagno. Ai miei tempi, non avevamo acqua corrente, usavamo la pompa. Nel disegno mi si vede intento a pompare l’acqua nella lavanderia. La sera bisognava sempre lasciare un secchio d’acqua per poter riazionare la pompa la mattina seguente. Non avevamo neanche il gabinetto, solo un piano con un buco tondo attraverso il quale gli escrementi finivano diretti nella fossa scavata accanto alla casa.
Ci sono altri disegni ‘architettonici’ risalenti a quell’epoca. Per esempio, di grattacieli, che, a quanto pare, a quel tempo mi affascinavano parecchio. E pensare che allora il massimo che avessi visto erano edifici a due piani. Se credi ti possano interessare, li cerco.
Tuo, Anselm