Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1043, febbraio 2020
Per quasi un anno ho lavorato alle fotografie delle Vele di Scampia con un cavalletto e una macchina fotografica medio formato.
La mia galleria italiana mi aveva chiesto di lavorare a un progetto su Napoli, così abbiamo fatto ricerche in tutta la città, ma sotto sotto, ho sempre saputo di voler fotografare Le Vele. All’epoca [intorno al 2006], non si poteva entrare facilmente nel complesso, e se entravi faceva paura. Poi abbiamo incontrato una persona del posto, un uomo di forse 65 anni che vendeva vestiti a poco prezzo nella sua auto e che a Scampia conosceva tutti. In seguito ho visto gli edifici di notte, ed è stato allora che mi hanno conquistato. Di notte, all’inizio, gli edifici non li vedi. La maggior parte è vuota e per questo non sono illuminati. In alcuni, però, ci sono i neon nei corridoi e sulle scale, una specie di reticolo di luci bluastre. Quando gli occhi si adattano, diventa magico.
Sono abituato a lavorare di notte, ma in questo caso, il buio ha reso l’intera operazione ancora più difficile. Dopo avere ottenuto l’accesso agli edifici, ho cominciato girandoci intorno e scattando dall’esterno con un treppiede. Il loro nome è ‘vele’, ma nella mia testa erano ‘velieri’: gli edifici sembrano una fila di navi viste di lato, perché hanno tutti forme diverse, uno dall’altro. Quando ci cammini intorno, il loro aspetto cambia continuamente, come una nave in movimento.
All’inizio ho fatto delle foto di esterni, finché non siamo riusciti a entrare e ho cominciato a incontrare gli abitanti. Ho pensato che sarebbe stato noioso ritrarre solo l’architettura. Durante il mio primo viaggio a Napoli per fotografare il complesso, in aereo ho letto Gomorra di Roberto Saviano (2006). Era appena uscito in edizione tedesca e mi è sembrato una specie d’introduzione a quello che stavo per fare.
Naturalmente, Scampia – il sobborgo nell’estrema periferia nord di Napoli dove si trovano Le Vele – svolge un ruolo importante nel libro, quindi quello era lo scenario che avevo in mente, ossia la sofferenza della città a causa della criminalità organizzata, della corruzione a tutti i livelli e così via. Ho sentito la tensione. Quello che non sapevo allora era che anche il film tratto da Gomorra sarebbe stato girato a Le Vele. Uno dei ragazzi delle mie foto ne è diventato uno dei personaggi principali.
Ero sbalordito dal fatto che questa architettura esistesse davvero. È un miracolo, anche se in senso distopico, che questa struttura sia reale e, in qualche modo, che sia ancora in uso. Gli edifici parevano rovine di un’epoca diversa, forse del futuro. Generavano un senso di eccitazione per quello che erano e per ciò che significavano. Ora Le Vele sono un’icona, ma anche a quel tempo la gente identificava il problema del crimine a Napoli con l’effetto che producevano.
Le Vele ne sono un simbolo, ma potrebbero anche essere un simbolo del fallimento del Modernismo. Pensiamo a un esempio come Alterlaa a Vienna, che la mia amica Zara Pfeiffer ha fotografato: come per Le Vele, si tratta di un altro progetto abitativo molto ambizioso. La gente però è contenta di viverci, mentre Le Vele sono un fallimento totale. La mia teoria – ma forse gli architetti non vogliono sentirla – è che il successo o il fallimento non sono dovuti al fatto che un complesso è migliore dell’altro.
Non è possibile modificare le strutture e le condizioni sociali semplicemente costruendo un edificio. Il ragazzo che mi ha aiutato a Le Vele è un architetto e diceva sempre: “Sai, penso che qui abbiano fatto un errore, questa parte avrebbe dovuto essere cinque metri più alta”. E io rispondevo: “Guardati intorno. Pensi che cinque metri avrebbero fatto la differenza?” Poter affrontare i problemi sociali con un edificio è un gioco mentale. Durante il comunismo era più facile costringere le persone a usare gli edifici in un certo modo, ma non so se questo sia auspicabile.
La mia teoria – ma forse gli architetti non vogliono sentirla – è che il successo o il fallimento non sono dovuti al fatto che un complesso è migliore dell’altro. Non è possibile modificare le strutture e le condizioni sociali semplicemente costruendo un edificio
Per caso, ho letto di una fotocamera Nikon con cui è possibile scattare foto fino a 25.000 ASA. Io da 10 anni mi arrangiavo al buio con 800 ASA e un cavalletto. Con la nuova fotocamera sembrava di poter vedere più a fondo nell’oscurità. L’ho comprata e, per qualche motivo, ho avuto l’idea di fare una presentazione o un’animazione montando singole immagini, perché non aveva una funzione video. Una settimana prima di un altro viaggio a Napoli, stavo testando la fotocamera a Essen, dove insegnavo. Camminavo per le strade di notte e scattavo rapidamente – click, click, click – perché per il filmato sul Le Vele volevo usare una macchina fotografica.
E ha funzionato. Il risultato finale è molto bello. Non ho inventato io questa tecnica, ma non l’avevo vista usare molto in quel periodo. Lo sfarfallio lo fa sembrare un film muto. A ogni istante ti trovi di fronte all’idea di un movimento costruito tramite immagini fisse e, come effetto collaterale, genera una specie di nervosismo: una costante sensazione di fermarsi, controllare, essere incerti. Non sembra scorrere e, quando scorre, si ferma e poi parte di nuovo. La tecnica era simile a quella usata per le fotografie: praticamente giravo intorno agli edifici, entravo e mi avvicinavo, incontravo persone. È molto personale, quasi soggettivo. Si riesce a percepire la macchina fotografica che entra nell’edificio, ma anche la riluttanza, l’apprensione.
Le diverse immagini dell’architettura sono più simili a indicatori della tua posizione. Definiscono uno spazio che tuttavia non corrisponde perfettamente allo spazio geografico
Ho soprannominato l’edificio: ‘Monstro’ – non so nemmeno se sia corretto. Per me era un’entità, una creatura. È l’unico mio lavoro dove l’edificio è il personaggio principale. All’inizio della mia carriera, le mie serie erano incentrate su un luogo definito, ma non ero interessato a una descrizione del luogo al di là di una visione d’insieme: a volte i posti erano piccoli, come un parcheggio. In seguito, la nozione di spazio si è ampliata.
In una serie di fotografie scattate a Kiev (Maskirovka, 2017), lo spazio è l’intera città, persino l’intera Ucraina. Le diverse immagini dell’architettura sono più simili a indicatori della tua posizione. Definiscono uno spazio che tuttavia non corrisponde perfettamente allo spazio geografico. Un quartiere di case popolari non è un soggetto nuovo per me. Ho lavorato a Marzahn a Berlino, a Halle Neustadt, ai Quartiers Nord di Marsiglia e prima ancora a Bristol, in Inghilterra.
Uno dei miei primi progetti, quando ero studente, riguardava questo tipo di edilizia sovvenzionata. Ho affrontato questioni come l’esclusione della classe operaia, un’emarginazione anche geografica, che sta ancora accadendo in tutto il mondo. Quando guardi Le Vele è ovvio che si tratta di una periferia, un luogo dove viene costruito un quartiere completamente nuovo per certi tipi di classi e persone. Un luogo che ha attirato molte critiche, ma per qualche ragione nel mio lavoro e, più in generale, questo discorso è sottaciuto.
Penso che il fattore principale in questo scostamento del discorso siano i social media, che distorcono il senso di qui e là, fuori e dentro. A Kiev, per esempio, la gente è molto collegata a ciò che accade nel resto d’Europa, principalmente attraverso i social media, c’è uno scambio veloce nell’osservare cosa indossano le persone, come si fotografano e così via. L’idea stessa di esclusione e inclusione è cambiata, passando dall’essere molto fisica e locale a qualcosa di diverso. Le critiche all’identità politica e di classe si confondono; l’emancipazione o resistenza si concentrano su chi sei, dove vuoi essere e come vuoi proiettare queste cose.
Le vecchie teorie di sinistra si occupano maggiormente dei gruppi sociali più numerosi, ma ora il quadro è più frammentato. Si potrebbe dire che è un effetto collaterale del neoliberismo. Le vecchie narrazioni non sembrano più funzionare.
Il lavoro su Le Vele mi ha liberato. È stato uno dei miei progetti più difficili. È il frutto della mia perseveranza e del voler lavorare a Napoli. Ho sperimentato dolore e paura. In questi edifici, più sali e più diventa buio, una volta dentro non è facile uscire. Un altro problema è l’eco tra edifici: senti le persone da molto lontano, ma non riesci a localizzarle.
In un certo senso, Le Vele mi ricordano i disegni settecenteschi delle prigioni di Giovanni Piranesi. Se lavorerei a un altro progetto come Le Vele? Sì, ma quel lavoro rappresenta l’apice della fusione di architettura, luogo, ambiente sociale e criminalità. All’epoca, quando non era così famoso, ho affontato il progetto con una specie d’innocenza. Se ci andassi ora, che ci sono maggiori livelli d’iconografia, sarebbe più arduo trovare la mia strada. A quanto pare, però, è diventato difficile visitare il complesso. A volte vedo gli edifici dall’aereo e non hanno perso il loro mix di forza e fascino.
Il testo è tratto da una conversazione tra Tobias Zielony e Kimberly Bradley
Tobias Zielony, artista berlinese, è noto per la sua rappresentazione fotografica di gruppi emarginati. Il suo lavoro è stato oggetto di diverse esposizioni, tra cui la 56. Biennale di Venezia (The Citizen, 2015), e ha insegnato nelle scuole d’arte di Colonia e Budapest.
Kimberly Bradley è scrittrice, redattrice e docente americana, di base a Berlino. Il suo lavoro è stato pubblicato su diverse riviste, tra cui ArtReview, Frieze, Monocle e The New York Times.