Romeo Castellucci con Societas Raffaello Sanzio ha rappresentato e rappresenta forse uno dei più potenti creatori di straordinari meccanismi visuali (corpi umani inclusi) operanti sulla scena mondiale. La precisione con la quale Castellucci colloca i suoi nuovi lavori nello zeigeist è impressionante. È quella che appartiene, banalmente, a tutti i grandi della cultura.
Quando recentemente ha ridisegnato la sua ultimissima installazione Il Terzo Reich (il titolo la dice tutta) trasformandola in un rave all’aperto all’interno degli spazi del centro direzionale di Kenzo Tange a Bologna – le cui superfici servivano come spazi sui quali sparare velocissime tutte le parole del vocabolario italiano – abbiamo pensato che si trattasse di una dichiarazione politica, meglio biopolitica.
E glielo abbiamo chiesto. La prima domanda è venuta troppo lunga, per la foga. Molte scuse per questo.
Le parole possono possedere una forma magica terribile, come si sa. È un’affermazione in antropologia molto nota, direi anche stracotta. In qualche modo anche Il Terzo Reich ha la funzione antropologica, se non altro sulla cultura italiana… Tu prendi tecnicamente tutte le parole del vocabolario – quindi tutte le tessere che compongono il linguaggio e anche il linguaggio scritto, quello della legge per primo – e con queste sfondi l’occhio dello spettatore proiettandole a velocità esagerata su una base (diciamo) gabber. Così l’intero vocabolario assume una violenza inedita, se non altro da un punto di vista retinico.
Sì sì. Allora, diciamo che il linguaggio in questo lavoro è un oggetto, non è un elemento per comunicare. Anzi sospende la comunicazione. La frustra. È una comunicazione frustrata dall’uso massivo letterale del linguaggio, scusa il gioco di parole. Questo linguaggio è anche un modo per mostrare la prima legge alla quale siamo sottoposti fin da bambini. Quindi il linguaggio è una legge. È una cosa innaturale. È qualcosa che dobbiamo apprendere se vogliamo far parte del consesso umano. E quindi ci arriva come un’imposizione. Giustamente gli psicanalisti dicono che siamo parlati dal linguaggio, è una verità, ma in questa installazione c’è un riferimento naturalmente al lato oscuro del linguaggio. Non c’è solo quella parte, perché è vero che il linguaggio è la nostra casa comune, non staremmo io e te qui a parlare in questo momento, no? Ma c’è anche questo altro lato. Ed è un aspetto oscuro e tenebroso, lo sappiamo. Perché il linguaggio appunto è una forma di violenza.
La senti, l’hai sentita questa violenza in queste settimane elettorali italiane?
Mah, si sentiva anche prima a dir la verità. È diffusa nell’uso della parola e dell’informazione, a mio avviso. Parere personale di cittadino, non di artista. Il potere reale inerisce alla spiritualità, all’intimità di ciascuno di noi. Non è lo Stato, non è l’esercito, non è la Chiesa, è chi detiene il potere del linguaggio che detiene il potere, in questa epoca. Questa però è una dimensione nella quale siamo immersi da molti anni a questa parte.
Quindi – in definitiva – Il Terzo Reich che cos’è?
Intanto è un titolo molto pesante. E si potrebbe anche dire che non si scherza con queste parole. Ma questo lavoro non è uno scherzo e quindi vuole rivelare proprio quanto dicevamo sopra. Posso dirti anche questo: una delle suggestioni per questo titolo è stato questo libro straordinario di un filologo ebreo che si chiamava Victor Klemperer, il quale ha scritto un diario durante il regime nazista. Klemperer aveva la sfortuna di essere ebreo, ma la fortuna di avere sposato un’ariana, quindi ha scampato i campi di sterminio. Durante il regime lui teneva un diario sull’uso perverso che i nazisti facevano del linguaggio, ma non delle parole, non dei contenuti, ma addirittura del significato delle parole, perché ogni giorno cambiava il valore alle parole. Allora lui ha scritto questo diario che si intitola Lingua tertii imperii, letteralmente la “lingua del Terzo Reich”, individuato come lingua. Ecco, questa modalità per entrare nelle coscienze e nell’intimità delle persone, in modo subliminale vorrei dire, c’è anche oggi, ovvero l’uso violento del linguaggio inteso come controllo sociale.
E lo hai sentito crescere in questi anni?
Certo che è cresciuto, certo.
Perché continua ad ampliarsi in maniera planetaria, non concentriamoci solo sull’Occidente.
Assolutamente. Ma anche il modo di comunicare tra le persone… Sono architetture che qualcuno ha progettato, e quindi è l’architettura che conta. L’architettura è il messaggio, per citare il nostro bravo McLuhan. Alla fine i contenuti sono solo delle scuse.
Per architettura intendi…?
Intendo il modo di scrivere i messaggi sul telefono, per esempio, il modo di inviare delle immagini. Ci sono algoritmi che controllano tutto questo.. Non voglio fare delle dietrologie, se esiste vuol dire che esiste… Però questi sono sistemi di comunicazione inculcata, che qualcuno ha voluto. Non c’è una libertà nella parola, a mio avviso, in questa epoca. Non c’è più.
Senti, esiste però la libertà di suono, forse. Le orecchie sono più libere degli occhi in questo momento, o qualcosa del genere. Per questo mi pare che anche l’album sonoro tratto dall’installazione, uscito per Xing, lavori su una zona invece più morbida, meno sollecitata…
Dici perfettamente. I suoni riconducono a quel terreno che può anche spaventare, quello dell’indistinto, no? Non c’è una parola che riesca a contenerli. Bisogna sentirlo il suono… e quindi è una sfera prelinguistica, infantile. Ecco, direi che tutto ciò che è acustico è infantile, no? Quindi proprio in senso anche etimologico la parola infante significa colui che ancora non è nel linguaggio, che non parla ancora. Quindi, tornando alla colonna sonora, proprio perché si tratta di un abbandono delle parole si entra in una zona in cui ti è richiesta un’immaginazione, un po’ come la musica, no? Hegel la definiva “la notte dell’uomo”. C’è un aspetto anche pericoloso della musica…
Stai usando spesso la parola/aggettivo “pericoloso”.
Eh beh, sì, è così.
A parte che ti ha sempre interessato.
Ma è essenziale. Stiamo parliamo dell’entrare in un luogo senza protezioni, no? E poi cosa vuol dire pericoloso? Il pericolo è un incontro con se stessi. Non è certo il pericolo che viene da una cosa o da un altro essere umano.
Nella nuova versione dell’installazione, ne hai distillato la natura sonica e ritmica per poi insertarla - tu parlavi prima di architettura- nella più bella delle architetture bolognesi che è la follia del futuro metà anni 70 disegnata da Kenzo Tange. Il quartiere fieristico/direzionale, pazzesco.
Sì si, è vero. È una bellissima collocazione… Devo dire che Silvia Fanti e Daniele Gasparinetti (deus ex machina della scena perfomativa internazionale da 25 anni con Xing, NdR) son sempre molto bravi a far dei luoghi sbagliati i luoghi giusti. Questo per me è molto importante e devo dire che le Torri di Tange… beh, c’è anche un riferimento a Babele, se vuoi. Sono soprattutto sono luoghi in cui si amministra un potere e quindi anche questo ha un significato recondito, se vuoi. E comunque si tratta anche di una piazza, anche questo è importante. E’ una piazza, siamo fuori da un teatro, siamo in luogo pubblico.
E poi c’è la questione di aver chiamato il tutto un rave, termine finita addirittura dentro il parlamento italiano, per quella questione della technofesta nel viterbese dell’anno scorso. Altra parola pericolosa.
Eh sì. Infatti, è così.
E quindi hai predisposto lì dentro la possibilità da parte del pubblico di fare un’altra cosa ancora, non solo di avere una posizione passiva, ma una posizione di circolazione. All’interno delle geometrie lunari del centro direzionale, per esempio.
Beh, sì, diciamo che lo spettatore fa esattamente quello che vuole, può anche allontanarsi, per me è molto importante che lo spettatore sia abbandonato, sia solo. Ed è giusto consegnare allo spettatore un problema, poi lui ne fa quello che vuole.
In fondo i suoni apparentemente brutali di Scott Gibbons – con lui lavori da decenni – sono suoni buoni.
Sì, anche secondo me, anche se molto spesso possono provocare un senso di panico, di terrore. Ma proprio perché Scott è una persona buona, sono suoni che – nonostante il terrore – fanno bene..
C’è qualcosa che ha influenzato il tuo lavoro, visto che nomini tempi oscuri in continuazione.. c’è qualcosa che ti ha toccato degli ultimi due anni?
La pandemia? Guarda, purtroppo ti darò una risposta deludente: purtroppo no. Nel senso che ho perso tempo, ho vissuto questo tempo come un idiota, non ho messo a frutto questa esperienza. Non sono stato in grado di elaborarla.
Ti fa onore.
Guarda, avevo la testa vuota. Veramente. La testa vuota per un anno e mezzo, due anni.
Beh, un riposo, dai, da un certo punto di vista.
Ma guarda, non saprei se un riposo, non lo definirei neppure un riposo. È questo essere così…
Sei sparito a te.
Sì, sì.
Va beh, da qualche parte sarai andato…
Non credo, sai.