Quando diciamo che le serie tv sono così buone da sembrare film sbagliamo di grosso. Non solo perché molto molto raramente somigliano a dei film (per dirne una: non sfruttano le immagini per farle parlare da sé ma le usano per illustrare una sceneggiatura), ma anche perché il loro parente più prossimo è la letteratura, sono i romanzi e le grandi narrazioni che il cinema non conosce, nemmeno con sequel e prequel. Così l’accoppiata tra Isaac Asimov, sempre sfortunato negli adattamenti cinematografici, e una serie, è sembrata subito una buona idea. Il risultato ha però dimostrato che dietro quelle difficoltà di adattamento c’era più di una ragione.
Se la fantascienza è l’arte di parlare del futuro per dire qualcosa sul presente, Fondazione (la serie) fatica a fare entrambe le cose. La maniera in cui mette in immagini la visione del futuro di Asimov è tutto tranne che originale, anzi rimette in circolo alcune delle idee e degli scenari che più conosciamo nei nostri anni. Come il pianeta Terminus, dove si svolge una buona parte della prima stagione, che è il classico scenario brullo che abbiamo visto sempre di più da Prometheus in poi. Solitamente è l’Islanda a prestare i paesaggi vulcanici e disadorni e in questo caso è Tenerife ma poco importa. Già Raised By Wolves quest’anno aveva raccontato una storia molto simile, una di “fondazione”, in uno scenario simile trovando con un potenziale immaginifico maggiore nell’iconografia cristiana rimescolata per dire altro.
E questo nonostante Fondazione sia una serie la cui ambizione non è diversa da quella che la trama racconta. La storia millenaria della lotta per ri-fondare una cultura preservandone nozioni ed elementi fondamentali lungo tutte le possibili crisi di una civiltà, diventa la lotta per adattarla in 8 stagioni. Nessuna serie, nemmeno quella di maggiore successo, sa mai se vedrà un’altra stagione fino a che non arrivano gli ascolti di quella in corso. Pianificarne 8 è un sogno sfrenato che può essere infranto ogni anno. Questo tuttavia è il piano di Goyer, che la serie l’ha creata con Josh Friedman e nella sua testa ha adattato tutto il ciclo in 80 episodi. La prima stagione, con i suoi 8 episodi, sta andando online su Apple TV+ con l’obiettivo di attirare così tanti abbonati da guadagnarsi, anno per anno, il diritto a procedere nell’impresa. Eppure, già ora alla prima stagione, nonostante l’evidente imponenza della produzione, sembra che sarà difficile.
Notoriamente la frase che ha conquistato la Apple e l’ha portata a dare il via alla produzione è stata: “È una partita a scacchi di 1.000 anni tra Hari Seldon e l’Impero, e tutti i personaggi che stanno in mezzo sono pedine. Alcuni di loro nel corso della saga diventano re e regine”. Tuttavia la dilatazione delle possibilità narrative sembra non riuscire a creare anche una corrispondente dilatazione delle potenzialità narrative. La ricchezza produttiva non corrisponde anche ad una ricchezza creativa. E in ultima analisi l’amore per i romanzi di Asimov, non corrisponde alla capacità di renderne il fascino impareggiabile.
E questo non per i cambi apportati (il cambio di sesso di alcuni personaggi ad esempio) perché alcuni di questi invece costituiscono le parti che più funzionano nella versione audiovisiva, come ad esempio la dinastia “genetica” che ci impone i medesimi attori nei medesimi ruoli a decenni di distanza, creando più continuità nella fruizione e facendo un discorso non male sull’inconsistenza del corpo nella fantascienza, dove è sempre la coscienza ad essere più importante (cosa rispecchiata nel ritorno della coscienza di Seldon).
Per il resto invece che puntare su personaggi, intreccio e mistero (il motore della gran parte della serialità moderna) Fondazione punta sulle scale, sulla grandezza degli elementi e degli spazi, dai grandi ambienti dei palazzi reali (tra art deco e, quando serve, brutalismo), fino alle statue da regime e alla vastità degli spazi. È un impero da miliardi di sudditi che riflette questo nell’imponenza delle scenografie. Tutto corretto ma terribilmente ordinario. Non c’è nessuna capacità di immaginare una visione futura che sia autonoma e non derivativa, e la visione del futuro, nella fantascienza, è tutto, è il carattere ed è l’originalità, ancora più del racconto, ancora più dei personaggi. È la capacità di creare visivamente un mondo quello che nella fantascienza esprime un senso più di tutto. È sempre il design a parlare.
Fondazione invece è una serie di ambienti e vastità, fatta di deserti e costruzioni minacciose in lontananza, come interni di astronavi e visite a pianeti inediti. Ci sono moltissime scenografie e scenari diversi, moltissimi attori, moltissime location, eppure se una similitudine con il modello di serialità cui aspira (Il trono di spade) può essere rintracciata è più con l’opulenza delle ultime stagioni che con l’asciuttezza delle prime. Una serie che parte già grande avendone i mezzi ma non le gambe. Non riesce a reggere tutta questa opulenza con una scrittura a livello e con un look sufficientemente autonomo. Anzi ha una chiarezza nelle luci, un naturalismo che stonano molto con gli intenti e la varietà di pianeti, estrazioni sociali, costumi e così via.
Per essere una serie sulla preservazione di una civiltà che fa della costruzione di un mondo il suo punto di forza, è clamoroso che sia proprio quell’aspetto a deludere: che di tutti i grandangoli sui grandi ambienti, la magnificenza delle ambientazioni e l’uso dei costumi non riesca mai a fare una visione unica e personale. Non riesce mai ad essere un’eccitante declinazione del nostro presente e delle sue tendenze tirate alle estreme conseguenze, ma rimane solo una produzione televisiva.
Immagini gentilmente fornite da Apple Tv+