Dopo sei mesi di chiusura Palazzo Grassi riapre con un progetto interamente dedicato a Venezia in occasione dei 1600 dalla fondazione della città. Hypervenezia mette in mostra l’impressionante lavoro fotografico di Mario Peliti (architetto di formazione ma professionalmente legato alla fotografia come gallerista ed editore). A partire dal 2006 Peliti porta avanti infatti il progetto Venice Urban Photo Project, una raccolta di scatti della città in bianco e nero, senza ombre portate e in assenza di esseri umani, un modo per far riflettere su uno dei futuri possibili in una Venezia che si è progressivamente spopolata di abitanti e riempita di turisti.
Oggi le immagini sono oltre 12.000 e la fine del progetto è prevista per il 2030. La mostra, curata da Matthieu Humery (conservatore presso la Collection Pinault) è suddivisa in tre atti: la linea, con circa 400 foto esposte in modo lineare a parete come in un itinerario ideale; la proiezione, con circa 3.000 immagini su tre schermi accompagnate da musiche originali di Nicolas Godin e la mappa, cioè una ricostruzione della pianta costruita attraverso le fotografie (come in un mosaico) disposte in corrispondenza dei sestrieri. Tutte le immagini sono geolocalizzate e ogni luogo immortalato dalla fotocamera di Peliti è riconducibile a un punto preciso della città lagunare.
Si tratta di un progetto ambizioso e impegnativo, come è nato?
Ho scoperto Venezia negli anni Settanta quando ero allievo del Collegio Navale Francesco Morosini. Allora gran parte degli alberghi chiudevano all’inizio di novembre per poi riaprire a Pasqua. Gli abitanti erano quasi 100.000, in parte occupati nelle fabbriche della città. Il degrado architettonico era evidente. Sono tornato a rivivere la città nel 2002: gli abitanti poco più di 60.000 e l’economia della città concentrata solo sul turismo. In compenso il patrimonio immobiliare era, e ora lo è ancor di più, straordinariamente ben recuperato. I residenti attualmente sono circa 50.000. Il mio progetto ha quindi l’ambizione di documentare la città come appare all’inizio del nuovo millennio ponendo l’accento sul problema del suo spopolamento attraverso immagini prive di persone.
Le immagini sono tutte in bianco e nero, e in totale assenza di esseri umani.
Fotografo nelle giornate di cielo coperto oppure poco prima dell’alba e immediatamente dopo il tramonto. Con l’ora legale, a metà giugno, c’è una bella luce intorno alle cinque del mattino. A quell’ora si riesce a scattare anche in piazza San Marco quasi in completa solitudine.
Camminare è parte integrante di questo lavoro.
Amo camminare e credo di essere un osservatore compulsivo. Il più delle volte le fotografie testimoniano immagini già stratificate nella mia memoria nel corso degli anni. Analizzo con regolarità quanto già realizzato per poi tornare negli stessi luoghi e ripetere talvolta la stessa inquadratura, con piccolissime variazioni. Mediamente percorro a Venezia dieci chilometri al giorno.
Le sue immagini mostrano una Venezia inedita, per nulla pittoresca, che ci fa vedere anche diverse zone insolite, periferiche e poco battute.
Tranne per qualche luogo non accessibile al pubblico, la Venezia che mostro è quella che si propone quotidianamente a qualsiasi passante. Per vederla basterebbe spegnere i cellulari e lasciarsi guidare dall’istinto senza paura di perdersi. Tornando al mio lavoro, penso che possa essere definito come un diario di incontri, scandito – esattamente come lo è nella realtà – in giornate.
Nell’immaginario comune, Venezia è una città che non cambia, o cambia pochissimo. Che trasformazione raccontano e racconteranno queste foto?
Che Venezia sia sostanzialmente immutata nell’ultimo secolo è una suggestione alla quale vogliamo tutti credere. Rispetto alla sua limitata superficie credo invece che sia la città italiana che ha subito più trasformazioni, creazione di nuove isole comprese. Senza attendere il completamento del mio progetto (mi auguro nel 2030), basta guardare indietro di 25, 30 anni per rendersi conto della quantità di cambiamenti avvenuti in un periodo così breve.
Fotografi che l’hanno ispirata?
Negli anni ho avuto la fortuna di lavorare con molti fotografi dalle caratteristiche estremamente diverse tra loro, da Gianni Berengo Gardin a Helmut Newton, per indicare due personalità estremamente diverse fra loro. A ognuno di questi incontri e ad altri avvenuti solo sui libri, devo qualcosa. Molto spesso i riferimenti sono facilmente individuabili nelle immagini, come nel caso di Charles Marville, Gabriele Basilico e Bernd e Hilla Becher. In altri casi il legame appartiene alla concezione stessa del progetto, come l’insistenza ossessiva dello sguardo di Nobuyoshi Araki, oppure, in apparente contrapposizione con il fotografo giapponese, il rispetto assoluto verso il soggetto, qualsiasi esso sia, di Pentti Sammallahti. Tentare di documentare sistematicamente tutta Venezia in qualità di fotografo è per me, paradossalmente, la prima esperienza vissuta intensamente da architetto, nel tentativo di creare fonti di documentazione utili, in futuro, ad altri architetti, urbanisti e storici dell’arte.
Per concludere: lei ha siglato un accordo con l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (Iccd) e la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio del Comune di Venezia e Laguna attraverso cui di fatto donerà alla città questo lunghissimo lavoro, possiamo definirlo un grande atto di generosità?
Nello spirito dei firmatari si tratta di un accordo “win-win”: a me l’opportunità della realizzazione delle fotografie, allo Stato l’onere della catalogazione di Venice Urban Photo Archive e la creazione di una sezione ad esso dedicata all’interno del portale dell’ICCD per la sua consultazione.