Terraforma avrebbe dovuto tenersi a luglio scorso ma la pandemia ha riscritto il mondo della musica elettronica e dei festival. Al suo posto è stata trasmessa Radio Safari, una ricognizione sonora della fauna di Villa Arconati realizzata da Niccolò Tramontana con la voce di Chiara Ryan Izzo proprio nei giorni in cui si sarebbe dovuto svolgere il festival. Questo evento ci dice di come Ruggero Pietromarchi, fondatore del festival, abbia reagito agli eventi: “Terraforma sta cercando di abbracciare le difficoltà del presente, di farle sue, di trasformarle e proiettarle verso il futuro”.
Quando è stato ufficializzato l’annullamento di tutti gli eventi è iniziata la seconda vita del festival partendo da due parole chiave, cura e progettualità. Nel 2020 Terraforma affida a Space Caviar, lo studio di Joseph Grima, l’art direction del suo Parco Architettonico e, tra un lockdown e l’altro, prende forma The Planting Project, un progetto di rimboschimento dell’area campeggio del festival che trae spunto da due episodi del 1982: la celebre performance 7000 Oak Trees di Joseph Beuys a Documenta Kassel (in cui l’artista tedesco accatasta 7.000 blocchi di basalto di fronte al Museum Fridericianum, ognuno corrispondente a un albero di quercia da piantumare in città, e per ogni quercia piantumata viene rimosso un blocco) e la pubblicazione del libro L’architettura degli alberi di Cesare Leonardi e Francesca Stagi in cui si analizzava l’anatomia degli alberi in relazione alla loro ombra.
Space Caviar e Terraforma hanno sfruttato i tempi morti dovuti del Covid per occuparsi degli spazi che negli anni hanno generosamente ospitato le serate musicali del festival. La piantumazione di 45 tigli, 45 frassini e 10 querce – tutte essenze autoctone del Parco delle Groane in cui si trova il campeggio di Villa Arconati, a Milano ovest – è la prosecuzione naturale del progetto di riqualificazione dei giardini settecenteschi della villa avviato con il progetto di Fosbury Architecture nel 2016 e supportato da Borotalco per la ricostruzione del labirinto di Marc' Antonio Dal Re con 500 esemplari di Carpinus Betulus.
Oltre a The Planting Project è stato avviato in parallelo un altro progetto artistico, questa volta itinerante – intitolato Il Pianeta come Festival che trae il nome da una serie di scritti di Ettore Sottsass pubblicati su Casabella nel 1972 – in cui artisti, musicisti, performer e filosofi reinterpretano la nozione del terraformare. I concetti di sostenibilità e architettura sembrano quindi essere alla base di un nuovo modo di intendere i festival di musica: ne parliamo con Ruggero Pietromarchi.
Quando sarà la prossima edizione di Terraforma?
Putroppo oggi non sono ancora in grado di dire moltissimo, però stiamo lavorando affinché la prossima edizione avvenga, cercando di fare tesoro di questo momento di grande complessità, cercando di terraformare questa pandemia e di rendere il festival sempre più sostenibile e al passo coi tempi. Durante il Covid è nata questa nuova progettualità che per la prima volta ha portato Terraforma e il suo linguaggio fuori dalla cornice di Villa Arconati, in Italia e all’estero. In parallelo ci stiamo prendendo cura dei suoi spazi fisici e naturali. Così è come stiamo cercando di ricalibrare il nostro equilibrio all’interno di questo nuovo mondo.
Nextones è un altro evento di arte e musica elettronica curato dalla vostra agenzia Threes che si tiene in un luogo particolarissimo, cioè nelle cave di marmo e granito della Val d’Ossola. Anche qui il genius loci sembra dettare le forme del festival.
Nextones è una collaborazione con Tones on the Stones che va avanti da tre anni che si svolge in un ambiente molto particolare, in cui lavoriamo su un progetto audiovisivo di relazione tra suono e immagine, un discorso artistico che negli ultimi anni ha avuto una grandissima fortuna e numerose derivazioni. Molti artisti si sono cimentati in questo tipo di linguaggio che a Villa Arconati abbiamo preferito non percorrere per non intaccare la sua natura principalmente sonora. Fin dagli inizi di Nextones avevamo denotato una criticità, ovvero che il festival era itinerante: le cave sono un territorio per certi versi ambiguo perché è un’attività industriale e non una cornice davvero naturale, quindi comportava una responsabilità seria da parte nostra. Quella delle cave è un’attività che negli anni ha subito una grandissima crisi a livello economico, che ha lasciato molti luoghi abbandonati che sono spettacolari palcoscenici naturali. Insieme siamo riusciti a individuare la Cava la Beola di Monte e avviare un progetto di medio-lungo periodo con un’opera di bonifica, di riqualificazione. In questo la pandemia si è rivelata un momento ideale per riflettere su come avviare questo processo che è stato affiancato da momenti di ricerca e di confronto con studenti, ricercatori, paesaggisti, architetti, musicisti e filosofi per immaginarci come riprogettare questo luogo mantenendone l’aspetto naturale, restituirlo alla comunità locale e farlo diventare un luogo di cultura.
In questa vostra cura dei luoghi vi portate dietro l’eredità positiva di aggregazione e di condivisione tipica dei festival, è come se restituiste quello spirito agli spazi. Ma cosa ne sarà della cura delle relazioni e del trovarsi insieme? Torneremo semplicemente a vivere quella dimensione in posti più belli e più curati? Che fine farà il ballo, questa pratica ancestrale di connessione?
Da un lato sono convinto che torneremo alla condivisione di tutti i tipi perché l’uomo è fatto di questo, non ho alcun dubbio. Sono bastati questi primi giorni di sole milanesi per far scattare il desiderio di socialità e il ballo ne è l’espressione più forte, più travolgente, quindi non è sostituibile, soprattutto per la nostra generazione. Oggi di ballo non se ne parla quasi, per lo meno non in Italia: nessun riferimento a questa categoria a livello istituzionale. Forse sono persone che non ballano? Che non hanno ballato? Che non sanno cosa vuol dire ballare? Questa è l’unica risposta che mi sono dato perché non saprei cos’altro pensare. Sul fatto che si ritorni in una maniera migliore ho del timore. Me lo auguro, ovviamente, ma credo che ci saranno delle conseguenze abbastanza drastiche a livello sociale e psicologico, per non parlare di quello economico, quindi questo mi fa pensare che ci potrebbe essere un ritorno spasmodico a delle vecchie usanze non salutari. Sarà nostro dovere cercare di veicolare dei messaggi di positività, di careness.
Questi mesi mi hanno fatto pensare al periodo barocco in cui si sviluppò la musica da camera inglese, un periodo in cui era vietato performare in pubblico e la musica si poteva fruire solo privatamente nei salotti borghesi (da qui il nome) per difendersi da pesti e persecuzioni religiose. Pensi che, almeno nel futuro prossimo, ci toccherà una sorte simile e dovremo abituarci a un ridimensionamento di tutti questi eventi?
È una cosa che non possiamo più di tanto definire noi: è una questione principalmente istituzionale. Tu citi la musica da camera, io stavo studiando il Festival di Bayreuth legato al teatro wagneriano che ha ridefinito il modo di vivere il teatro che prima era una baraonda dove l’orchestra scompariva nella fossa, per dirne una. Si ridefiniscono qui i canoni di fruizione di un certo tipo di arte e di musica. È stata una presa di posizione sociale. Non basta il pubblico, non bastano gli artisti, non bastano gli organizzatori, siamo un po' in balia delle istituzioni, che vanno sensibilizzate, ma in questo siamo fiduciosi. Nel Comune di Milano, ad esempio, abbiamo sempre trovato un volano positivo.
Questo periodo di pausa vi ha fatto maturare nuovi pensieri o critiche circa l’aspetto sostenibile di Terraforma?
La sostenibilità dipende molto dalla scala in cui si fanno le cose, dalle proporzioni. Mi fa impressione pensarci ma forse l’ultimo Terraforma del 2019 aveva raggiunto il suo limite, nonostante le nostre numeriche rimangano basse. Questa pandemia ci impone di ridefinire una scala che è molto più vicina a un discorso di sostenibilità. Nonostante le difficoltà siamo entusiasti di riprogettare un festival su una scala molto minore: parliamo di dimezzare le presenze del festival. In termini di sostenibilità ci dà molto più terreno di sperimentazione perché riducendo la scala si possono implementare certi discorsi e avere una misurazione più puntuale. Stiamo impostando il festival in quella direzione e da questo deriveranno progetti più sostenibili.
Cos’è Radio Safari?
È un bellissimo progetto di Nicolò Tramontana con Chiara Ryan Izzo legato all’ecologia del suono, un’ecologia acustica legata al mondo animale. È una fotografia sonora importante dal punto di vista documentativo del 2020 in cui si registra l’ambiente acustico di Villa Arconati in quel preciso periodo storico. Quindi è anche questo un progetto di sensibilizzazione a una sostenibilità estesa che non è quella canonica dei rifiuti o dell’energia e delle risorse idriche ma che tiene conto di un orizzonte sonoro di cui molto poco si parla.
Ora che avete registrato questo panorama sonoro del regno animale e vegetale non vi spaventa interromperlo con il prossimo Terraforma?
Siamo abbastanza sereni perché abbiamo avuto le nostre rassicurazioni da LIPU, l’associazione per la protezione degli uccelli. A quanto pare l’ecosistema di Villa Arconati sarà in grado di sopportare tre giorni di invasione sonora, di terraformazione.
Quale sarà il primo viaggio che farai non appena si potrà?
Ho visto che un nostro festival amico di Graz che si chiama Elevate ha annunciato per marzo degli artisti, tra cui Brian Eno, e sono proprio tentato…
Immagine di apertura: Terraforma e Space Caviar, The Planting Project, 2020. Foto Mirko Cecchi