Si è spenta a Milano Lea Vergine (1936-2020), dopo 82 anni di signorilità senza compromessi, vissuti all’insegna dell’acume del rigore e della passione; con uno sguardo puntuale e un senso dell’umorismo sferzante, ma mai fine a se stesso. Mente indomita, capace di distacco e di passione, di giudizi icastici sul mondo dell’arte, anche sugli artisti, con i quali pure intrattiene rapporti intensi.
Un esordio da giovanissima, con l’interesse per forme di arte caratterizzate da tensione politica, nel solco tracciato dall’ammiratissimo Giulio Carlo Argan, attenta a correnti come l’arte cinetica e programmata (alla quale più avanti, nel 1983, dedicherà il libro Arte programmata e cinetica 1953-1963. L'ultima avanguardia, pubblicato da Gabriele Mazzotta). Segue le gallerie più aggiornate, dalla Galleria Milano dell’amica Carla Pellegrini alla sperimentalissima Diagramma di Luciano Inga Pin. È in quest’ultima che vive un’esperienza determinante: la folgorazione per la body art di artisti come Urs Luthi, che dalla fine degli anni Sessanta gioca sulla seduzione androgina e sull’ambiguità dei sessi e dei ruoli, e come Gina Pane, che nell’arte introduce il corpo nella sua fisicità, legato alla resistenza, alla prova, alla sofferenza come passi attraverso i quali ristabilire la relazione primaria con la fonte primigenia di ogni energia. Nel 1974 il suo libro Body art e storie simili. Il corpo come linguaggio è tra i primi a fare il punto su queste tendenze.
Di lì a poco nascerà l’idea di una mostra, che aprirà nel febbraio del 1980 a Palazzo Reale, a Milano: L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940. Con un allestimento di Achille Castiglioni, al quale in seguito Lea Vergine si rivolgerà per quasi tutte le sue mostre, vi sono raccolte le opere di oltre cento artiste attive all'interno dei movimenti dell’avanguardia storica d’inizio Novecento, ma poi cancellate dalla storiografia.
L’altra metà dell’avanguardia segna un’epoca, quella delle istanze di genere e delle rivendicazioni femministe; e nello stesso tempo rappresenta un vero e proprio momento di svolta dal punto di vista storico artistico e critico. Condotta con l’intento di verificare e valorizzare l’apporto artistico delle protagoniste sottraendole a ogni strumentalizzazione, compresa quella del femminismo radicale che pure in quel periodo esprimeva figure di grande rilevanza, si distingue dalle numerose altre mostre che negli stessi anni si svolgono in paesi del mondo occidentale per l’orgoglioso rigore e per il preciso taglio storico, evidenti anche nella scelta di circoscriverla ai pochi decenni delle Avanguardie del Novecento.
Come nota Angela Maderna, autrice del libro di recente pubblicazione L’altra metà dell’avanguardia quarant'anni dopo (Postmedia Books, 2020), oggi la mostra è unanimamente riconosciuta come un caposaldo proprio per la fondatezza scientifica e critica dovuta alla scelta di prendere le distanze da quelle che Lea Vergine stessa definiva “mostre-censimento”, e per il rifiuto di adeguarsi al taglio sociologico e antropologico allora vigente in relazione al femminile. Una scelta tutt’altro che ovvia, in quel momento: Carla Lonzi rimprovererà la curatrice per il suo super ego maschile.
Tra le altre mostre di Lea Vergine si possono ricordare alcune personali come quella dedicata a Carol Rama, ed esposizioni tematiche quali Trash. Quando i rifiuti diventano arte – tra le poche non allestite da Castiglioni – al Museo d’Arte Moderna di Trento e Rovereto nel 1997, dedicata ai recuperi, ai riusi di elementi di scarto, ma anche di frammenti sonori, di cui la cultura degli ultimi cento anni è gremita; o, con Giorgio Verzotti, Il Bello e le Bestie al Mart di Rovereto nel 2004 – 2005. E D’Ombre, a Palazzo delle Papesse a Siena, nel 2006: perché “senza ombre non c’è realismo: e non c’è neppure realtà”
Ma la passione di Lea Vergine era scrivere. Nè disdegnava la divulgazione; in nome della fiducia nella cultura ha sempre scritto su giornali di ampia diffusione, dal Corriere della Sera al Manifesto, con la medesima chiarezza cristallina e con il medesimo il rigore critico che le erano propri in ogni campo. E generazioni di studenti hanno studiato sul suo L’arte in trincea. Lessico delle tendenze artistiche 1960-1990. Perché, come sosteneva nella conferenza tenuta presso la Fondazione Ratti nell’aprile 2009, “quello che accade anche nelle Arti è che si conoscono le cose che si frequentano”. Per dissipare la sensazione di qualcosa di inconoscibile occorre stimolare la frequentazione, la conoscenza. Fare divulgazione approfondita e intelligente significa contribuire a che un senso di familiarità rispetto all’arte contemporanea si possa diffondere.
E l’arte contemporanea conta; conta perché “non è necessaria”, è “sragionevole” e non può essere utilizzata. È il superfluo per eccellenza. Ma, come sosteneva nella medesima conferenza, “ti costringe a confrontarti col tuo lato oscuro”.