La valorizzazione dell’eredità culturale di un Paese, di un popolo, sembrava finora dovesse necessariamente passare da una costante sovrapposizione dei beni materiali: oggetti, manufatti, utensili, opere d’arte, e beni immateriali: racconti, narrazioni, consuetudini, credenze, riti, feste, sentimenti, passioni, emozioni, pensieri.
E oggi? In questo esatto momento storico quest’interpretazione non può essere che analizzata e forse rivista. Abbiamo perso una generazione, abbiamo perso parte della nostra eredità culturale.
Al tempo del Coronavirus negli ospedali e nelle case di riposo, gli anziani non hanno avuto né tempo né voce, coperti da lenzuola bianche, abbandonati nei loro letti, cadaveri fermi senza affetti.
Il Pio Albergo Trivulzio. Milano.
Dal dipinto alla scena: Angelo Morbelli e il Pio Albergo Trivulzio
Vivono di una rinnovata attualità le opere del pittore che a cavallo tra l’Ottocento e l’inizio dello scorso secolo si concentrò sulla vicenda umana degli ospiti dell’ente di assistenza, teatro oggi di una delle pagine più nere della tragedia Covid-19.
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- Valentina Petrucci
- 24 aprile 2020
Angelo Morbelli, piemontese di nascita e lombardo d’adozione, alla fine del XIX secolo, iniziò a rappresentare, nei suoi dipinti, tematiche di denuncia sociale, concentrandosi sugli aspetti umani dell’esistenza nel Pio Albergo Trivulzio, raccontandola attraverso opere capaci di sfidare la società. Ritratti nei ritratti, vecchi allontanati perché non ritenuti più utili, lavoratori che s’erano messi al servizio della nascente società industriale e che diventano emarginati nel momento in cui nessuno ha più avuto bisogno di loro, anziani senza mezzi di sostentamento economico condannati a trascorrere l’ultimo tempo della loro esistenza assieme a tanti altri, in enormi ambienti promiscui, lontani da qualsiasi affetto. Giorni ultimi, il dipinto che inaugura questa poetica dell’abbandono, della desolazione, della sofferenza: un’opera giovanile, che precede la svolta divisionista di Morbelli. L’artista cattura la quotidianità, la fa propria e al contempo la rende pubblica, descrivendo queste figure come corpi quasi assenti, sedute sulle lunghe panche del grande luogo dedicato alle piccole attività quotidiane. La luce, elemento fondamentale nella pittura di Morbelli, fa risaltare i loro volti spenti e malinconici: alcuni leggono, altri hanno lo sguardo perso, altri ancora si reggono la testa, quasi a raccontarci delle loro preoccupazioni. C’è chi tenta di scrivere, chi dorme, chi si guarda attorno completamente disorientato, un percorso narrativo che contribuisce a rivelare l’attitudine di Morbelli come artista che indaga la realtà più per sottolineare la condizione umana di chi la patisce, che per denunciare un problema concreto, una necessità quasi, la sua, di contraccambiare quegli sguardi, individuando non tanto una temporalità che implica il processo narrativo, quanto piuttosto una compresenza distesa sulla tela intendendola come condensazione di un unico registro semiotico-figurativo e antropologico-culturale.
Ritratti nei ritratti, vecchi allontanati perché non ritenuti più utili, lavoratori che s’erano messi al servizio della nascente società industriale e che diventano emarginati nel momento in cui nessuno ha più avuto bisogno di loro, anziani senza mezzi di sostentamento economico
Il vero tema, quello che Morbelli cerca di evocare nei suoi dipinti, è l’angoscia, l’esclusione dalla vita, l’abbandono dagli affetti familiari e l’allontanamento dalla società, quella più viva. Gli ospiti del Pio albergo Trivulzio erano costretti, per assenza di spazi adeguati, a condividere gli stessi ambienti, a dormire in vaste camerate, dove non era possibile dividere i sani dai malati. Assorti nei loro pensieri consumano il loro modesto pasto tra tante altre figure infelici e sconosciute che altro non possono fare che vivere nei loro ricordi e gli sguardi di quei spettatori assenti, i loro gesti fanno comprendere chiaramente il contenuto dell’opera.
C’è un dipinto però che potrebbe esser ritenuto una sorta d’epilogo conclusivo: Sogno e realtà, noto anche come Trittico della vita, opera del 1905 che, non scevra di pulsioni simboliste, viene narrata con una pittura meditativa e intrisa di dolcezza e al contempo nostalgia. Il trittico viene articolato attraverso due figure di anziani, ai lati, seduti in un interno e rischiarati solo da bagliori che sottolineano i loro volti. Entrambi sono ritratti assopiti, un lavoro a maglia per lei ed un libro per lui.
Al centro, l’elemento che rende quest’opera forse una delle più commoventi della pittura italiana tra Otto e Novecento, in una dimensione onirica capace di ricongiungere i due amanti, troviamo descritti due giovani, lei trasognate poggia la testa sulla spalla di lui, mentre insieme ammirano il cielo stellato.
L’unico elemento di continuità rimane la ringhiera, perno delle due diverse dimensioni spazio-temporali.
Evidente è l’evocazione del ricordo, che rende più sopportabile, forse, la vecchiaia, un ricordo di un’età felice che distoglie i pensieri dalle amarezze del loro presente per una vita ormai cambiata.
“C’è ancora molto da raccogliere in fatto di sentimento e pittoresco”: così Morbelli scriveva, nel 1901, all’amico Pellizza da Volpedo, palesando in tal modo, per i dipinti del ricovero milanese, una riflessione dettata forse più da motivi umani che da ragioni politiche, dove il dramma era il soggetto e l’accento era posto proprio sugli aspetti esistenziali che argomenta, Morbelli, con intima delicatezza e lirica raffinatezza.
Immagine di apertura: Angelo Morbelli, Il Natale dei rimasti, 1903 Venezia, Galleria d’Arte Moderna