Passeggiamo sui terrazzi, ci affacciamo alle finestre, restiamo chiusi in casa osservando un mondo in bianco e nero con strade vuote, silhouette lontane con mascherine, tra ansia e preoccupazione. Fra le tante tragedie, il Coronavirus ha fatto un miracolo: farci riscoprire il valore semiotico del paesaggio, facendo tornare centrale la pittura che da sempre ne affronta il tema soprattutto attraverso il soggetto che l’osserva, e lo tratta, in ogni epoca e stile.
Da Piero della Francesca, passando per il vedutismo settecentesco sino all’esperienza di Caspar David Friedrich per arrivare ai più contemporanei come Salvador Dalì o gli impressionisti, che per primi avrebbero studiato il variare delle condizioni della luce sul panorama, o ancora la pittura simbolista prima e divisionista poi, come Giovanni Segantini o Angelo Morbelli, senza dimenticare le vedute futuriste che ci parlano di città in profonda trasformazione, proiettate verso la modernità.
Fra le tante tragedie, il Coronavirus ha fatto un miracolo: farci riscoprire il valore semiotico del paesaggio, facendo tornare centrale la pittura che da sempre ne affronta il tema
Considerata genere minore, – “paese”, “paesetto”, “tavolette di paesi”, per usare i termini con i quali veniva indicata secondo le fonti del ‘500, la pittura di paese era preceduta nella gerarchia artistica dalla pittura di storia sacra o mitologica e dal ritratto. Il paesaggio è stato declassato dalla tradizione umanistica, ancora dominante, a sola appendice delle scene di storia e di devozione, dove la figura umana era il vero soggetto.
La pittura di paesaggio muove i primi passi nel corso del XV secolo, attraverso l’opera di artisti fiamminghi come Rogier Van der Weyden, suscitando poi l’interesse di Piero della Francesca, con il quale iniziò a prendere maggior corpo, non di meno accadde nelle opere di Leonardo da Vinci, con l’invenzione dello “sfumato” che riportò le tematiche del paesaggio ad indagare gli aspetti più minuti della natura. È durante il '700 però, attraverso la rappresentazione di scorci di città, le vedute o i “capricci”, molto ricercate dai collezionisti e dalle più grandi Corti europee, che la veduta si sviluppò come rappresentazione topografica di grandi città, come oggetto di culto del rituale viaggio di formazione degli artisti di tutta Europa: il famoso Grand Tour. Le vedute assunsero spesso il ruolo di souvenir per turisti, Gaspard Van Wittel, Canaletto, Bellotto o Guardi, riuscirono a dare un forte impulso alla nuova corrente artistica. Attraverso l’opera di due grandi pittori-architetti, entrambi del nord Italia ma naturalizzati romani, Giovanni Paolo Pannini e Giovan Battista Piranesi, sulla scorta della lezione vanvitelliana, si sviluppò il genere delle “rovine” o “vedute ideate”, che composero e interpretarono, in modo del tutto fantastico: testimonianze di una Roma antica e moderna.
Verso la fine del ‘700, grazie a grandi maestri come Turner, si giunse pian piano alla pittura di paesaggio che tutti noi conosciamo e poi con la scoperta del plein air si avvia la grande stagione della pittura di paesaggio naturalista, che fa da preludio a quella impressionista e macchiaiola che trionferà nell’800.
Per Karl Ludwig Fernow, il critico d’arte e scrittore tedesco che più è riuscito a sintetizzare il tema, il paesaggio è come musica: non ha contenuti precisi e interviene sul sentimento di chi l’osserva, come la musica agisce su chi l’ascolta. Non esiste dunque un “solo” paesaggio e dunque non esiste una “sola” pittura di paesaggio ma tanti paesaggi quanti sono i soggetti della visione.
Il paesaggio è stato declassato dalla tradizione umanistica, ancora dominante, a sola appendice delle scene di storia e di devozione, dove la figura umana era il vero soggetto
Ma oggi? Nel nostro presente più contemporaneo il paesaggio “figurativo” è praticamente assente, come se la produzione artistica contemporanea se ne fosse completamente dimenticata o non lo ritenesse poi così attraente, o interessante, o utile. Come i maestri fiamminghi varcavano i loro confini e si recavano all’estero spinti da fame di conoscenza, noi stessi cerchiamo posti affascinanti come mete dei nostri viaggi, luoghi inesplorati o nature incontaminate, città diverse e sempre più lontane. Eppure anche noi, che immortaliamo i nostri viaggi in racconti fotografici, diamo sempre meno attenzione al paesaggio puntando quasi esclusivamente sulla nostra individualità.
E siamo di nuovo a oggi. Da un lato città vuote, dove la triste melodia delle sirene delle ambulanze ha sostituito il vociare allegro ed impegnato delle persone, che oggi chiuse nelle loro case, pensano solo a poter passeggiare, uscire, vedere altro di diverso da quelle quattro mura divenute ormai simbolo di prigionia e mancanze. Sia di città che di collina o di montagna, oggi vorremmo viverlo e non solo immaginarlo quel paesaggio. Potrà questa nuova esigenza modificare il nostro sentire di fruitori o collezionisti? Sarà questo un nuovo cambiamento per il mondo dell’arte? Un dato emerge con chiarezza. La lunga storia delle città, dal Medioevo sino alla prima metà del ‘900, è stata indagata e descritta dagli artisti, andando di pari passo con lo sviluppo urbanistico, fallendo poi miseramente in entrambi i campi nella seconda metà del XX secolo. Non più uno studio, non più una riflessione, ma solo esigenza. Tra variazioni e mutamenti, espansioni e contrazioni, le città non sono più paesaggi ma divengono il mero elemento propulsore di nuovi e diversi sistemi economici, perdendo forse la loro vocazione, il genius loci, l’anima. Facendo tornare alla mente le parole di Pierre Auguste Renoir : “Com’è difficile capire nel fare un quadro qual è il momento esatto in cui l’imitazione della natura deve fermarsi. Un quadro non è un processo verbale. Quando si tratta di un paesaggio, io amo quei quadri che mi fanno venir voglia di entrarci dentro per andarci a spasso”.
Immagine di apertura: Gaspar van Wittel, Veduta di Piazza San Pietro a Roma, 1710 ca.