Trisha Baga ci rende meno stupidi?

Sospesa tra materico e immateriale, la mostra all’HangarBicocca ripercorre l’opera dell’artista americana, interprete del nostro tempo e di una vita fatta di finestre, link, schermi.

Trisha Baga “the eye, the eye and the ear”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2020. Courtesy dell’artista e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto: Agostino Osio

La sensazione che si prova dopo essere usciti dalla mostra di Trisha Baga è molto simile a quella che si ha dopo una giornata di ricerche davanti al computer, quando le informazioni si accumulano e si rincorrono portandoci da un luogo mentale a un altro in un fl usso apparentemente senza interruzioni, ma che in realtà ci costringe a fermare un pensiero per articolarne uno nuovo immediatamente, inconsci del tempo che passiamo inchiodati immobili davanti allo schermo.

Una sensazione molto comune che è anche quella ben descritta, seppur in termini fin troppo apocalittici, da Nicholas Carr nel suo celebre Internet ci rende stupidi?. Volutamente o no, Trisha Baga riporta in modo molto efficace questa dimensione nel suo lavoro. 

Mollusca & The Pelvic Floor del 2018 (che tratta il tema dell’intelligenza artificiale sviluppata da Amazon con il dispositivo Alexa) e 1620 (una sorta di racconto fantascientifico sui geni della cultura americana, realizzato appositamente per questa mostra) sono due installazioni che utilizzano la tecnologia del 3D e lavorano sulla sovrapposizione e frammentazione della narrazione, che si sviluppa contemporaneamente su diversi livelli: immagini, testi e sonoro, componendo qualcosa di molto simile a ciò che Carr chiama “ipermedia” (definisce infatti così il Web, che combina l’ipertesto con la multimedialità).

Si tratta cioè di un’esperienza in grado di mettere insieme una serie di stimoli che costituiscono quell’iperinformazione che frequentiamo ormai quotidianamente e dalla quale veniamo ipnotizzati o consensualmente intrappolati. Una sorta di mondo immateriale che però si compone anche di una precisa fisicità condizionante (per quanto dimenticata), se è vero che in mostra non siamo costretti a stare davanti a un computer bisogna constatare che anche qui questo sterminato flusso d’impulsi ci chiede di essere fruito mentre stiamo seduti indossando occhiali e cuffie.

Si può ben dire che il lavoro di Trisha Baga sia capace di rappresentare (senza trascurare la componente estetica) un frammento ormai sempre più grande di vita, fatto di finestre che si aprono e si chiudono su uno schermo e di link che costringono il pensiero a essere sempre più elastico. 

Interprete del proprio tempo, l’artista espone in mostra anche un lavoro meno recente nel quale indagava invece il linguaggio televisivo: There’s No “I” in Trisha del 2005-2007 (d’altra parte prima del web c’è stata la TV), in cui lei stessa è protagonista (come spesso accade nelle sue opere) di una sitcom incentrata sugli stereotipi di genere. 

Si può ben dire che il lavoro di Trisha Baga sia capace di rappresentare un frammento ormai sempre più grande di vita, fatto di finestre che si aprono e si chiudono su uno schermo

Se i video proiettati o dentro un monitor fanno pensare a una (solo apparente) incorporeità però, l’altra faccia della medaglia mostrataci da Trisha Baga è un fare materico, che implica un’azione corporea espressione di una manualità suggestiva come quella messa in campo per la realizzazione delle belle sculture in ceramica policroma realizzate dall’artista a partire dal 2015, che fanno parte della serie Hypothetical Artifacts, esposta all’inizio del percorso espositivo. Il gruppo di opere, esposte come fossero reperti archeologici (l’allusione alla tassonomia tipica dei musei di storia naturale è evocata dalle immagini alle pareti), rappresenta oggetti d’uso quotidiano come stampanti, portafoto, macchine da scrivere, telefoni ecc. Oppure ancora s’incontrano i busti della serie Calcified  Encrasements for Virtual Assistants, che diventano potenziali contenitori di dispositivi di intelligenza artificiale, rappresentando anche il trait d’union che ci riporta ai temi del digitale, della connessione e dell’immobilità corporea.

A questo filone che potremmo definire materico, rispondono inoltre i Seed Paintings del 2017, dipinti realizzati con semi di gommapiuma su pannelli di legno in cui sono raffigurate immagini di un’altra installazione multimediale e nei quali si vedono comparire, oltre alle rade figure umane, anche alcune finestre informatiche. 

Artista:
Trisha Baga
Titolo:
The eye, the eye and the ear
Date di apertura:
20 febbraio - 19 luglio 2020
Sede:
Pirelli HangarBicocca, via Chiese 2, Milano
Curatrici:
Lucia Aspesi e Fiammetta Griccioli

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