Giuseppe Ragazzini è prima di tutto un visionario onirico, capace di raccontare storie senza usare le parole. Pittore, illustratore e visual artist, nasce a Londra nel 1978. Dopo la laurea in Filosofia, affascinato dalle suggestioni de Il mistero Picasso, documentario sulla vita del pittore diretto da Henri-Georges Clouzot, inizia il suo percorso creativo che lo porta verso quel dinamismo magico proprio della video scenografia. Negli anni sviluppa un’originale tecnica di animazione e metamorfosi pittorica che realizza in tempo reale, durante concerti e spettacoli teatrali. Momenti sorprendenti che, senza fatica, sono già ricordi scritti con l’inchiostro indelebile.
Il dinamismo fatto di sogni della video scenografia
Pittore e illustratore, Giuseppe Ragazzini racconta come nasce la sua originale tecnica di animazione e di metamorfosi pittorica che prende vita durante concerti e spettacoli teatrali.
View Article details
- Ginevra Barbetti
- 06 settembre 2018
Il percorso che hai fatto parla di filosofia e arte animata: questa connessione è stata utile per delineare il contorno del tuo lavoro?
Fin da piccolo, ho avuto la passione per il disegno: facevo ritratti a chiunque entrasse in casa. Fra i 13 e i 18 anni, tuttavia, smisi completamente di dedicarmi al disegno. Fu proprio quando mi trasferii a Firenze per frequentare Filosofia che ricominciai in modo naturale a coltivare la mia arte, inizialmente tenendo un piccolo diario, in cui mi dividevo fra mie personali riflessioni pseudo esistenziali, citazioni filosofiche, ed episodi anche banali del mio quotidiano. Il tutto era sempre accompagnato da un’illustrazione o da un collage. Sono sicuro che proprio lo studio della Filosofia mi abbia in qualche modo portato a riscoprire il disegno, questa volta con la consapevolezza che volevo farne un mestiere, che volevo fosse la mia vita. Dopo poco cominciai anche a dipingere con l’olio e a vendere i miei primi lavori in una galleria d’arte vicino casa.
Come nasce l’ispirazione per una nuova creazione?
Devo dire che non ho mai creduto nell’ispirazione, nel senso romantico del termine. Credo invece nel lavoro e nella disciplina. Quando comincio a lavorare, le cose misteriosamente “accadono”. E in questi accadimenti c’entra moltissimo anche il caso e l’errore: il tentativo d’integrare, correggere e riassorbire uno sbaglio dandogli invece carattere di necessità. Credo che la mia creatività, nella forma più libera, passi molto attraverso il caso e il tentativo paradossale di controllarlo. Una goccia di vernice che ti cade su un disegno o uno scarabocchio a occhi chiusi su una faccia dipinta che non ti piace possono aprire nuove strade inaspettate e rendere il lavoro più forte, più autentico, più “necessario” appunto.
Qual è il posto dove preferisci lavorare?
Senza dubbio il mio studio, anche perché devo dire che crescendo sono diventato abbastanza metodico, per non dire “nevrotico”, cosa che è certamente anche un limite e che a volte dovrei riuscire a superare tornando alla naturalezza con cui producevo un tempo. Oggi ho bisogno di avere il tavolo da disegno sgombro, i miei strumenti di lavoro a portata, carte e ritagli a disposizione, la possibilità di consultare internet per una faccia o un modello, e poi magari finisco per utilizzare solo il pennino e la china, anche se preferisco sapere che posso disporre di tutti i miei strumenti.
Che musica ascolti?
La musica è sempre presente. Quando lavoro ascolto soprattutto Chet Baker e Miles Davis.
Il mestiere creativo di tuo padre, Enzo Ragazzini, uno dei più apprezzati fotografi italiani, quanto e come ha influito nel dare forma alla tua professione?
Mio padre è stato sicuramente decisivo, mi ha sempre incoraggiato e sostenuto, anche perché ha sempre creduto avessi talento. Ma non mi ha mai “forzato”. Insieme abbiamo sempre sperimentato giocando creativamente. Nel suo studio di fotografo (ma anche di falegname e collezionista di oggetti di ogni tipo), ho fatto di tutto, dai collage con le pin up delle riviste fotografiche alle sculture di legno, al tiro con l’arco alle macchine di legno con i cuscinetti a sfera con cui ci buttavamo per le discese di Roma con i miei amici che non vedevano l’ora di immergersi in quella dimensione fuori dal comune. Anche mia madre è una vera artista, anche se non ha mai voluto sentirsi definire tale perché è di una modestia quasi irritante, ma senza dubbio ha avuto un ruolo importantissimo nella mia crescita artistica.
E visto che la curiosità si alimenta, come “alleni” la tua e quella dei tuoi figli?
Diciamo che con mio figlio Leo cerco di giocare come facevo con mio padre, in maniera creativa. Ma spesso mi rendo conto che basta gettare le basi, poi sono i bambini che ti sorprendono continuamente. Io non faccio che assistere a questa innata potenza creativa (di cui credo tutti i bambini siano dotati) che si sprigiona. Semplicemente la assecondo e la incoraggio. Leo sta ancora passando quel magico momento di puro istinto creativo, è incredibile la bellezza e la forza di alcuni suoi disegni, un misto fra Picasso, Basquiat e Dubuffet. Intanto lo sfrutto un po’ e mi godo questa fase. Fra un po’, purtroppo, comincerà probabilmente a disegnare manga, Superman e Spiderman. Per fortuna, il mio secondo figlio Vincenzo ha solo sei mesi e avrò anche lui ad assistermi quando Leo sarà nella fase Pop!
Un viaggio a occhi chiusi: dove?
Senza dubbio sott’acqua, nella mia amata Grecia.
Il tuo rapporto con il mondo del digitale?
Il mio rapporto con il digitale è fortissimo, pur partendo sempre da una base analogica. Credo che per molti versi questa sia un’epoca infelice per l’arte contemporanea, dove i bluff abbondando e in qualche modo viene spesso premiato l’eccesso o la trovata fine a se stessa. Tuttavia, devo riconoscere che nascere nell’epoca del digitale è stata per me una grande fortuna: ho potuto sperimentare con tecnologie che fino a pochi anni fa non esistevano o avevano costi esorbitanti. Basti pensare all’animazione pittorica o collage o alle videoproiezioni. Credo che il fatto di vivere in questo tempo faccia della mia arte e della mia ricerca nel digitale e nell’interattivo una sorta di piccolo anello di congiunzione fra tradizione e modernità. Sono stato fra i primi “artisti” a sperimentare una forma di collage e arte interattiva attraverso l’uso di telecamere ad infrarossi. Ormai molti anni fa utilizzando una telecamera Kinect hackerata ho realizzato la mia “Interactive collage machine”, un software che mi permette di controllare e cambiare i miei collage controllandoli in tempo reale con i movimenti del corpo. Del resto, anche la nuova app creativa e didattica che ho appena pubblicato, Mixerpiece, va decisamente in quella direzione.
Ce la racconti?
Mixerpiece non è solo un’app per bambini. Nella sua semplicità, è un potentissimo strumento creativo, anche per adulti e addirittura per artisti e illustratori. Si tratta di una sorta di lavagna magnetica digitale con una serie di elementi estrapolati da famosi capolavori dell’arte di tutti i secoli raccolti in categorie, che si possono combinare per creare nuovi collage con possibilità creative infinite e molto sorprendenti. Mixerpiece ha da poco vinto il premio Platino come “New Best Mobile App 2018” per i Best Mobile App Awards.
Nuovi progetti che stanno prendendo forma?
Sto lavorando a due grandi mostre in due nuovi spazi che hanno aperto a Parma, grazie all’intraprendenza di un originalissimo e coraggioso mecenate parmigiano, Virginio Mori. La prima mostra sarà appunto dedicata al mio lavoro digitale, in un nuovo grande spazio interattivo, il Mori Center. La seconda mostra invece coinvolgerà parte del mio lavoro pittorico e collage, e sarà nel centralissimo vicolo del Vescovado, affidata alla direzione artistica di Giorgia Ori. Mi aspetta poi una video scenografia per uno spettacolo teatrale di Lucia Poli per la regia di Angelo Bruno Savelli.