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Arte negli interstizi urbani
Organizzate per temi e in sette distinte “ambasciate”, le opere della 20. Biennale di Sidney trovano la loro esemplificazione migliore negli “spazi interstiziali” che le ospitano.
Una biennale è un’irripetibile rete di rapporti tra opere differenti su molteplici siti. Collega gli artisti l’uno con l’altro, le opere ai siti, i curatori alle occasioni di finanziamento e alle pubbliche relazioni.
Sono queste forze relazionali ad avere con tutta probabilità fatto crescere la popolarità delle biennali in tutto il mondo, poiché rafforzano le reti facendo circolare arte e persone. E tuttavia l’allestimento urbano di una biennale collega l’opera con qualcosa che non è solo il circuito mondiale dell’arte, offrendo agli artisti l’occasione di dare una collocazione alle loro opere e di rispondere alla politica, alla storia, alla cultura e al profilo del luogo. È questa identificazione con un luogo specifico a offrire alcune delle provocazioni più interessanti della 20. Biennale di Sidney.
Fade Away, Fade Away, Fade Away di Bo Christian Larsson, commissionata per la Biennale, è un’opera costituita da una performance e da un’installazione appositamente concepite per il Cimitero di Camperdown a Newtown, non più in uso per le sepolture dal 1848. Tre sarte siedono in un container per spedizioni, cucendo coperture bianche per lapidi e sepolcri. L’artista si è ispirato alla storia del luogo e intende appianare le differenze tra i sepolti coprendone le lapidi che ne riportano le storie in un romantico scenario da cimitero in disuso. Ma è questo l’unico modo di ricercare l’uguaglianza, eliminando le differenze e fondendo ogni cosa nella monocromia? Il Daily Telegraph, quotidiano di Sidney, afferma che alcuni abitanti del posto si sono opposti alla copertura delle lapidi, a dimostrazione di quali conflitti possa suscitare l’adesione al luogo di queste opere appositamente realizzate.
L’aspetto imprevedibile di questa accresciuta disponibilità forse rende le opere coinvolte più adatte alla militanza politica, ma anche alla spettacolarità della creazione dell’identità cittadina. In certo qual modo è forse questo il motivo per cui certi gesti della 20. Biennale sono diventati così esplicitamente militanti, diversi dalla chiassosa spettacolarità di altre manifestazioni cittadine ospitate da Sidney.
La curatrice Stephanie Rosenthal ha organizzato la manifestazione in una varietà di temi, con la maggior parte delle opere collocate in una di sette distinte “ambasciate”. Ma in ogni caso lo sperimentalismo, la presa di posizione politica e l’attento commento della strategia dello spazio urbano trovano la loro esemplificazione migliore negli “spazi interstiziali” della 20. Biennale, ulteriore categoria di opere selezionate che mal si adattano alla categorizzazione tematica, strettamente legate come sono ai siti che le ospitano. Le opere “interstiziali” rafforzano il vigore della formula della Biennale: più esposte e indifese, si estendono nella città lasciandosi coinvolgere dalla sua bellezza, dalle sue diseguaglianze e dalla sua drammaturgia. È avventurandosi in questi spazi interstiziali che la formula della Biennale raggiunge il massimo potenziale.
Collocata al centro del piazzale antistante il Museum of Contemporary Art Australia, l’opera di Richard Bell Embassy viene curiosamente classificata come opera “interstiziale” tra le “ambasciate” ufficiali della Biennale. L’autore usa il valore simbolico della tenda per analizzare la concezione politica della proprietà e dei diritti degli indigeni, con un riferimento alla tenda-ambasciata montata per protesta nel 1972 sul prato della sede del Parlamento di Canberra per sostenere la campagna per i diritti territoriali del popolo indigeno. “Il fatto che fosse una tenda-ambasciata quasi istantaneamente sostituibile era anch’esso un colpo di genio”, afferma Bell. “Ho deciso di elaborare una risposta artistica come segno di omaggio e di rispetto per tutti coloro che furono coinvolti in quel solenne avvenimento.”
Per molti giorni Embassy ha ospitato una serie di manifestazioni incentrate soprattutto sull’istruzione e sul coinvolgimento dei giovani. Il carattere effimero, l’accessibilità e il palese senso di contestazione di una tenda montata in una città di monumenti e di sedi aziendali ne ha fatto un luogo per la voce degli emarginati. Embassy voltava le spalle al simbolo territoriale dell’Opera di Sidney e all’abbagliante azzurro delle acque del porto di Sidney per attrarre l’attenzione sui dibattiti, sui video e sulle discussioni che avvenivano dentro la tenda.
Un’alta percentuale degli “spazi interstiziali” si trova a Redfern. Negli anni Sessanta qui vivevano molti indigeni che lavoravano come operai al vicino stabilimento ferroviario della Eveleigh Railway o nelle fabbriche dei dintorni. Nel 1972, dopo un’ondata di espulsioni, un decreto del governo federale consentì all’Aboriginal Housing Corporation di intraprendere l’acquisto di abitazioni gestite da indigeni. A pochi chilometri dal centro degli affari della più grande e più costosa città d’Australia, è oggetto di feroci contese, in quanto punto di riferimento degli indigeni che si recano a Sidney – più o meno un’ambasciata – ma anche irresistibile fonte di lucro per gli immobiliaristi e per il governo che stanno costruendo nella zona.
Le opere d’arte si trovano negli spazi tra gli edifici, agli angoli delle strade e nei terreni vuoti, soprattutto in zone a forte traffico pedonale, ed è facile capitarci sopra casualmente. In Abercrombie Street un’opera di Oscar Murillo, Meandering – black wall (unfinished), inserisce un’impalcatura nello spazio tra due edifici. Chi passa diretto all’Università di Sidney o alla stazione ferroviaria di Redfern svolta un angolo e trova un muro di 12.000 punti a specchio, What Remains, un’installazione di Daniel Boyd a Redfern. I cerchi a specchio di Boyd riflettono il carattere transeunte dei passanti, metafora dell’intensità del periodo del cambiamento e dell’edificazione dell’area, che produce continuamente nuove e contraddittorie immagini della zona.
Voltato l’angolo dell’opera di David Boyd c’è We Built this City di Keg de Souza, installazione architettonica che ospita anche un centro di formazione e dibattito, la Redfern School of Displacement (“Scuola di Delocalizzazione di Redfern”). Per quest’opera de Souza ha creato un’installazione praticabile fatta di tende recuperate, tagliate e ricucite insieme a formare un’unica copertura di grandi dimensioni. “L’opera”, dichiara de Souza, “si ispira alle sempre più numerose tendopoli del territorio di Sidney, nate per l’aumento della popolazione dei senza casa (per esempio fuori dalla stazione ferroviaria centrale) e fa riferimento al quartiere di Redfern con la recente installazione della Redfern Aboriginal Tent Embassy (“la tenda-ambasciata degli aborigeni di Redfern”), eretta per protestare contro la proposta di edificazione commerciale, considerata prioritaria rispetto all’edilizia residenziale per gli indigeni.” Così facendo l’opera mette in luce molti dei temi della Biennale e la sua idea di fondo si ispira a una citazione da William Gibson: “Il futuro è già qui, solo che non è equamente distribuito”. Le tendopoli in città indicano il modo in cui le persone espulse dal loro luogo oggi si infiltrano nelle crepe di Sidney e nei suoi spazi interstiziali.
Come Bell, de Souza sottolinea l’impegno e la carica formativa del suo progetto, affermando il potenziale dell’impegno comunitario per resistere all’espropriazione. Un percorso analogo, intitolato Redfern-Waterloo Tour of Beauty, è ospitato nell’omonima zona dal collettivo di militanti urbani SquatSpace e unisce luoghi di valore storico tra cui un monumento, dei murali e i siti di nuova costruzione.
Un altro degli spazi interstiziali è occupato da Home Away From Home (Bennelong/Vera’s Hut) di Archie Moore. Ubicata in cima a una collina, nei Giardini Botanici che sovrastano l’opera di Sidney, è la ricostruzione della capanna offerta nel 1790 all’aborigeno Bennelong dal governatore Arthur Phillip. Dopo essere stato deportato da Phillip, Bennelong fu poi ricompensato con doni dal governatore, allo scopo di facilitare il processo di transizione della nuova colonia. Ma l’interno è la memoria dell’esperienza personale di Moore, con un riferimento alla capanna della nonna di Moore a Glenmorgan, nel Queensland. L’opera perciò sottolinea la possibilità di creare nuovi collegamenti attraverso il dare e il ricevere un dono; non la casa, come si percepisce immediatamente, ma il bel territorio del popolo Gadigal di Sidney.
L’ultima manifestazione che si è svolta alla Redfern School of Displacement di Keg de Souza per la 20. Biennale di Sydney si è svolta il 28 maggio alle 13, con il titolo Dispossession and displacement through enforced and prioritised language (“Espropriazione e delocalizzazione tramite l’imposizione di un linguaggio prioritario”).