Camille Henrot: Grosse Fatigue

Versatile, solitaria e di talento... Domus propone un ritratto della giovane artista francese, che mescolando codici popolari e citazioni da raffinata intellettuale, ha meritato il Leone d'argento alla Biennale d'Arte di Venezia.

Versatile, solitaria, di talento. Nata nel 1978. Da alcuni anni, Camille Henrot s’interroga sul moltiplicarsi dell’illusione del potere nello sguardo e sul reale governo dell’occhio sul mondo. L’ha fatto, fino a oggi, dalla posizione che il mondo dell’arte in Francia riserva alle sue artiste non militanti: in assoluto, la più scomoda. Non si perdona nulla in terra transalpina (e in generale forse in gran parte dell’Europa “latina”) alle artiste donna. Si sorride – spesso con una certa sufficienza – di fronte ai progetti che, se fossero firmati da artisti uomini, farebbero gridare al miracolo. Nell’eventualità poi in cui le artiste siano state finalmente riconosciute (spesso da curatori stranieri d’altri emisferi o del Nord Europa), si comincia a dire che il loro lavoro sta già diventando più debole e che non sono più quelle degli inizi. Per fortuna, ci sono artiste che continuano il loro lavoro, non si lasciano mettere ai margini, utilizzano – semmai – le sponde dove sono confinate per concedersi ogni libertà nell’esplorare i campi che più interessano loro e che spesso sono i più attuali, nonostante siano i meno battuti. Viaggiano, lavorando sovente all’estero. Leggono. Incontrano nei gusti la gente comune. Studiano tranquille. Rarissimamente polemizzano.

In apertura e qui sopra: Camille Henrot, Grosse Fatigue, alla Biennale d'Arte di Venezia, Arsenale

La lista sarebbe lunga e porterebbe a pensare, per esempio, che il crollo dell’arte francese nei mercati internazionali sia esclusivamente dovuto all’insopportabile insistenza con la quale non si osa difenderle e promuoverle, quasi che Louise Bourgeois – al tempo stesso popolare e raffinata – sia stata l’unica grande artista riconosciuta sia intellettualmente sia dal punto di vista degli affari negli ultimi decenni. Non che nel resto del mondo, per l’appunto, le cose vadano meglio; ma questo spiega perché di un’artista come Camille Henrot il grande pubblico delle mostre non sappia ancora molto, nonostante abbia segnato gli ultimi anni con diversi progetti.

Quasi agli esordi, Henrot aveva deciso di “penetrare” nell’atelier dell’architetto, artista e utopista Yona Friedman, ma lo aveva fatto dal punto di vista del suo cane. Quando si era messa a scolpire strane forme tribali l’aveva fatto con giunti e tubi da idraulico o ali d’aereo. Aveva deciso di sovrapporre poi in una proiezione i tre King Kong della storia del cinema: quello di Peter Jackson del 2005, quello di John Guillermin del 1976 e l’originale del 1933. Anche in questo caso, ha creato un ibrido affascinante, che ha finito col dare vita a un nuovo film popolato d’immagini al tempo stesso in armonia e in contrasto continuo. Idee semplici, di grande potenza però. Esperimenti condotti chiedendosi: cosa succede quando sperimentiamo? In che misura la nostra conoscenza si raffina e si approfondisce ma quanto contemporaneamente stiamo perdendo attraverso i nostri tentativi?

Camille Henrot, Grosse fatigue. Photo per gentile concessione dell'artista e Kamel Mennour Paris

Infiniti altri progetti, coraggiosamente assai diversi l’uno dall’altro, sono sorti negli ultimi anni, in sprezzo dell’ostacolo costante nei confronti del mercato. Sculture, film, installazioni, disegni e persino intenzioni pittoriche per l’avvenire e, da poco, anche Ikebana che costituirono la sorpresa della scorsa Triennale al Palais de Tokyo. Li tralasceremo tutti in quest’occasione critica, ma di ognuno è rimasta una traccia nel film “enciclopedico”, Grosse fatigue (Grande fatica), vincitore del Leone d’argento quest’anno alla Biennale di Venezia.
È un curioso canto di fondazione e di creazione, ma anche e soprattutto di morte e scomparsa per il quale è stata accompagnata dalla complicità del DJ e compositore francese – nonché suo compagno – Joaquim dell’etichetta Tigersushi, e dal poeta Jakob Bomberg, autore con lei del testo messo in musica, strano coacervo di miti e riflessioni sullo stato del mondo.

Camille Henrot, Grosse fatigue. Photo per gentile concessione dell'artista e Kamel Mennour Paris

Da sempre, come ogni artista che si rispetti, Camille Henrot ha due tratti che irritano un certo tipo di critica e di pubblico e ne esaltano invece un secondo, quello non prevenuto. Non ha nessun problema a utilizzare codici popolari, nell’opera vincitrice alla biennale il ricorso al rap strappa commenti, di volta in volta, entusiasti e critici. Non ha nessun problema a citare – talvolta in maniera esplicita, tal altra in maniera criptata – libri complessi, difficili, per l’appunto non da grande pubblico, ma da raffinata intellettuale, che reclama per sé – e dunque per gli artisti in generale – il diritto di uscire dai codici della citazione accademica, proprio per far vivere i libri senza eccessivi complessi. Sono cose che si perdonano con difficoltà a una ragazza nata nel 1978, che dice per prima di non aver ancora trovato quale posto possa occupare, nel contesto dell’arte, il sapere e quale l’istinto: errore.

Camille Henrot, Grosse fatigue. Photo per gentile concessione dell'artista e Kamel Mennour Paris

Il film Grosse Fatigue è una meditazione sulla creazione. Chissà se piacerà agli appassionati di rap, non abituati a forme di clip così insoliti. Tredici minuti per raccontarci la nascita del mondo e il rischio della sua fine. A cosa porta il nostro desiderio di farci immagine del mondo? A questo problema, eminentemente filosofico, Henrot risponde sovrapponendo e intersecando diverse pagine di computer sullo schermo. Inventando, tra l’altro, un modo nuovo di guardare cosa accade quando sul desktop si naviga su diverse strade. Non gioca dunque la carta godardiana della fusione emotiva, ma quella della catalogazione e della separazione, del taglio. Henrot è influenzata, in quest’occasione, tanto da Matisse e dai suoi Papiers découpés che dalla danza Coupé-Décalé, dalla lettura dei miti, e dall’ossessione compulsiva dell’essere umano di catalogare il mondo. Starobinski e il suo esame lucido e drammatico dell’enciclopedia non è poi così lontano dall’universo di Henrot, con lo smembrarsi dionisiaco, l’andare in pezzi attraverso la scoperta del mondo, l’interruzione e la cesura che diventa anche quella orgasmica, qui masturbatoria, dell’eros di chi guarda e si specchia nel mondo.

Camille Henrot, Grosse fatigue. Photo per gentile concessione dell'artista e Kamel Mennour Paris

Di cosa siamo la collezione e perché a nostra volta collezioniamo? Che cosa si accumula e quanto vive di quel che accumuliamo? Spaccati di mondo si succedono in ognuno di noi. Ma cosa accade al nostro vivere quando, finestra su finestra, si esplora e si disvela: istanti di gioia, festa, colori, ma anche fatica e morte. Meravigliosi e sinistri animali imbalsamati sono filmati con amore e disperazione al Museo di storia naturale parigino e allo Smithsonian Institute dove Camille Henrot è stata a lungo in residenza. Camille continuerà a piacere troppo e a fare discutere. Buon segno. Federico Nicolao

Camille Henrot premiata con il Leone d'argento alla Biennale d'Arte di Venezia. Photo Italo Rondinella