Quest’anno il lavoro di Landworks, un workshop internazionale sul paesaggio si è mosso tra le rovine e gli spazi abbandonati di una base militare sull’Isola di Caprera. Il progetto, giunto alla sua terza edizione, è voluto e supportato dalle amministrazioni locali tra le quali l’Ente Parco e il Comune della Maddalena, insieme alla Regione Sardegna e l’Ente Foreste, per sollecitare spunti di riflessione verso nuova utilizzazione e riconversione di questi luoghi abbandonati.
LandWorks Sardinia
Per la terza edizione del workshop di land-architecture, ottanta tra artisti e architetti hanno lavorato tra le rovine e gli spazi abbandonati di una ex base militare sull’Isola di Caprera.
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- Luigi Latini
- 03 luglio 2013
- Caprera, Sardegna
L’espressione “teatri di guerra”, usata e abusata di recente nel mondo universitario veneziano appare appropriata per un laboratorio che questa volta s’immerge in ciò che resta di una vita militare assopita, dietro le quinte di un paesaggio marino fino troppo corteggiato per la bellezza delle sue coste (siamo nell’arcipelago della Maddalena) ma disseminato di segni ancora potenti delle strutture di attacco e di difesa appartenenti a uno sguardo completamente diverso. In questo contesto mutevole si è costretti a proiettare nel futuro un diverso modo di prendere coscienza di un paesaggio mediterraneo, dove la guerra ha trovato in passato il suo “teatro”, le sue triangolazioni e i suoi rifugi, ha inciso con la sua mentalità e le sue leggi nella struttura sociale delle comunità locali. Di tutto questo restano oggi manufatti in rovina nei quali le pietre affioranti, le macerie e il ferro dissolto dalla salsedine si confondono con il profumo inteso della vegetazione e l’azione erosiva di un vento costante e implacabile, di un mare sin troppo seducente.
Dal 23 maggio al 2 giugno 2013 un gruppo internazionale di partecipanti, un’ottantina, guidati da esperti nel campo dell’architettura del paesaggio, si sono dislocati in luoghi dell’isola dove questi segni tangibili della storia recente affiorano e si mescolano con un paesaggio denso di interrogativi e di attese. Nell’arco di una settimana hanno preso corpo lavori complessi e meditati, landscape installations che, nonostante la natura effimera della loro concezione, si immergono nella materia, tra gli abitanti e negli interrogativi più urgenti del luogo, esprimono la necessità condivisa con gli attori locali di acquisire nuovi mezzi espressivi, nuove strategie comunicative per discutere del futuro di questi paesaggi. Sue Anne Ware RMIT Melbourne e Gabriella Trovato AUB Beiruth, Stefan Tischer LabCap Berlin, Christian Phongphit Soa+D Bangkok, Ferdinand Ludwig Baubotanik Stuttgart, Craig Verzone VWA Lausanne, Roberto Zancan Domus Milano, e Carlo Scoccianti ArtLand Firenze sono i nomi dei team leaders di questa esperienza, figure che in vario modo e con angolazioni diverse hanno scelto il luogo, indirizzato il lavoro e accompagnato la costruzione del progetto.
Si parte da un panno di lana: una lunga coperta sulla quale un filo rosso racconta una storia in omaggio a Maria Lai, l’artista da poco scomparsa che esprime le radici di questa terra. Sulle mura di un forte abbandonato un ricamo rosso racconta una storia in moltissime lingue, una meditazione sul paesaggio che ha scelto l’ago e il filo invece del rastrello e la vanga, ma che bene riesce a stabilire quel legame che sussiste tra il racconto di una terra e il paesaggi che ne sono espressione tangibile. Sue Anne Ware e Gabriella Trovato hanno avuto il compito di guidare questo gruppo di ricamatori paesaggisti.
Tra due mari, a cavallo tra le ultime propaggini di una lingua di terra rivestite di arbusti e la roccia completamente plasmata dalle istallazioni militari, Ferdinand Ludwig e il suo gruppo lavora invece sull’azione di un “vento giardiniere”, sui modi attraverso i quali si può giocare con quest’elemento così onnipresente.
Una costruzione di pietre s’insedia sul dorso del promontorio, con una figura sfaccettata che esprime i diversi modi che la vegetazione sviluppa nel reagire all’azione del vento. È un lavoro di riflessione sull’interazione tra uomo e processi naturali che appartiene, con modalità diverse, e in un ambiente dunale, al lavoro del gruppo coordinato da Carlo Scoccianti. L’estremità di Punta Rossa, sottile lingua di roccia completamente abitata dalle istallazioni della base militare abbandonata, diventa un ricco microcosmo nel lavoro composito e narrativo qui depositato dal gruppo capeggiato da Craig Verzone. Si attraversa il dorso di questo cetaceo pietrificato, punteggiato dalle trincee e dalle piattaforme dei cannoni scomparsi e s’incontrano diciotto istallazioni che ci descrivono gli infiniti modi di convivere con queste rovine e trovare linguaggi che ne riportano in luce la presenza nel paesaggio.
Non poteva mancare una polveriera, che si annuncia con il suo recinto introverso. Qui Stefan Tischer e la sua squadra lavora tra gli edifici in rovina che sembrano emergere da una mondo ipogeo: macerie e terrapieni invasi da una vegetazione infestante rendono difficile la percezione di un luogo che il progetto, invece, rivela con mezzi espressivi inediti e sorprendenti. Soprattutto capovolgendo la dinamica di una vegetazione che retrocede, abbandona i terrapieni, lascia il posto alle piante del luogo e prende posto in un “giardino” di vasi disciplinati, un vestibolo che dentro le mura precede l’esplorazione degli spazi più misteriosi. Ai bordi dell’affaccio sull’acqua, le case e i magazzini abbandonati si animano di figure eloquenti nel lavoro del gruppo di Roberto Zancan, apparizioni intime che irrompono nel viaggio di chi si è perso nella luce accecante degli spazi esterni dove, invece, è il vento a gonfiare le vele sistemate sulla banchina e muovere gli impercettibili nastri bianchi appesi a una griglia di fili tesi.
Non lontano da Stagnali, lungo il sentiero di Poggio Bacca che giunge a una postazione di totale visibilità dell’arcipelago, Christian Phongphit ragiona sulla percezione del paesaggio con la dispersione su massi affioranti e sulle rovine degli edifici presenti di una moltitudine di sedute recuperate dai magazzini comunali, dipinte in modo omogeneo. Il lavoro di ascolto del paesaggio del luogo, presentato nei suoi dati essenziali nelle stanze di edifici abbandonati, trova il suo apice nella scena che ci appare entrando nella navata centrale dei magazzini di Porto Palma, dove Christian Phongphit costruisce con il suo gruppo un gioco di fili tesi e una danza di barche trovate.
Le onde del mare cedono il posto agli spazi che attraversiamo assorti e, come nella profondità del mare, la luce con tagli netti e misteriosi filtra dall’alto: questa volta dalla copertura di una navata, bucherellata ed erosa dalla salsedine. L’edificio vuoto diventa, nel lavoro meditato di un paesaggista, una macchina ottica che ci regala il gioco sottile di confondere l’acqua con l’aria, un’aria ventosa della quale questo paesaggio è fatto, nella quale vorremmo continuare a muoverci. Il workshop Landworks Sardinia 2013 è stato guidato da un comitato scientifico composto da Stefan Tischer e Annacaterina Piras, con il DADU-Università di Sassari e il Master in Mediterranean Landscape Urbanism.