Il 23 maggio ha inaugurato al MACRO di Roma la prima mostra di Open Studio – un programma di residenza in cui quattro artisti sono invitati a trasferirsi in città per alcuni mesi, organizzando il proprio studio all'interno del museo. Al termine della residenza lo studio, più o meno allestito, rimane visitabile dal pubblico, a metà strada fra una mostra non curata e un laboratorio abbandonato di colpo nell'imminenza di una catastrofe. Il progetto di residenza è stato inaugurato da Carola Bonfili, Graham Hudson, Luigi Presicce e Ishmael Randall Weeks; in questo primo anno esplorativo gli artisti sono stati nominati per chiamata diretta dai responsabili del progetto; a partire dal secondo ciclo (che inizierà ad agosto) sono stati scelti tramite un bando pubblico.
A Roma mancava un programma di residenza istituzionale di questo profilo (manca anche a Milano, a Torino, a Napoli e a Matera, se è per questo), e c'è qualcosa di molto promettente nell'idea di accessibilità che implica: gli studi degli artisti si trovano fisicamente in uno spazio pubblico, aperto ai visitatori su appuntamento o in determinati orari. Questo, che da una parte dovrebbe "sfatare" il mito della creazione artistica, paradossalmente lo rafforza: il pubblico si trova, spesso per la prima volta, a partecipare di un privilegio normalmente caratteristico dei critici e dei curatori, quello di vedere l'artista al lavoro. Per renderlo evidente la mostra finale della residenza ha scelto formato dell'Open Studio, sottolineando la processualità e la dimensione di ricerca della residenza.
Studi d'artista: Open Studio
Al MACRO, Carola Bonfili, Graham Hudson, Luigi Presicce e Ishmael Randall Weeks aprono i loro studi ai visitatori, che si trovano così a partecipare di un privilegio riservato a critici e curatori, quello di vedere l'artista al lavoro.
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- Vincenzo Latronico
- 14 giugno 2012
- Roma
Gli artisti hanno reagito in modo diverso a questo invito, sottolineando, forse, una difficoltà del progetto. Gli spazi di Graham Hudson e, in maniera diversa, di Luigi Presicce (che ha lavorato con un gruppo di artisti con cui collabora abitualmente) mostravano una dimensione laboratoriale tanto marcata da apparire sospetta. Nel primo caso, seghe e martelli gettati casualmente qua e là, brogliacci scarabocchiati, fotocopie e schermi intermittenti si davano un gran daffare a lasciar intuire un'attività febbrile e frenetica di Hudson, come interrotta di colpo per un allarme-bomba: ma la teatralità dell'allestimento era tanto palesemente insincera da diperdere immediatamente ogni curiosità del visitatore. Lo stesso, in modo diverso, valeva per lo studio di Presicce, carico di opere intere e parziali, tavoli artatamente cosparsi di fotografie e schizzi, improbabili mappe concettuali – che parevano chiaramente voler evocare un processo (che pure c'era stato!) anziché esserne traccia. In entrambi i casi, probabilmente, la necessità di rendere visibile il processo ha finito per avere la meglio sul processo stesso.
Carola Bonfili ha scelto di affrontare questo problema evitandolo: il suo Open Studio corrisponde più che altro a una mostra personale in scala ridotta (molto riuscita, peraltro). L'intero spazio era occupato da un'installazione ambientale nerissima, in cui il visitatore doveva entrare come in una caverna, orientandosi col tatto nel buio pesto, guidato solo da un lontano rumore di esterni. Sorpresi, allarmati e sedotti dall'alternanza di materiali sotto la mano (velluto, felpa, seta?, e altri indefinibili) e dalle svolte repentine del cunicolo, alla fine si sbuca in una sorta di radura, rischiarata da una grande forma ovale, opaca e luminescente. La forma, appiattita nell'assenza di riferimenti prospettici, pare un diaframma, ma si rivela presto essere un grande pallone di gomma soffice, dalla presenza perturbante, sessuale e un po' sbalorditiva. All'uscita, subito dietro, si è accolti da un video delicato e silenzioso, due filari di chiome ripresi dal basso, paralleli ai lati dello schermo, che oscillano a un vento peraltro invisibile. A questo progetto si accompagnavano alcune pubblicazioni di disegni di altri artisti, concepiti da Bonfili insieme a Valerio Mannucci come pratica artistica e al contempo traccia della sua formazione curatoriale.
Al termine della residenza lo studio, più o meno allestito, rimane visitabile dal pubblico, a metà strada fra una mostra non curata e un laboratorio abbandonato di colpo nell'imminenza di una catastrofe.
Una strategia espositiva simile a quella di Bonfili, forse più ibridata con la dimensione del laboratorio, è stata scelta da Ishmael Randall Weeks, che ha riempito lo spazio di opere più o meno compiute come a simulare una studio visit – esito naturale e molto efficace di un periodo, appunto, di preparazione e lavoro. Troppo affollato e senza costrutto per essere considerato una mostra, l'allestimento offriva comunque un'immagine precisa e sfaccettata della pratica scultorea di Weeks, incentrata sull'architettura. Fra le altre cose: un tavolo da disegno bloccato da una miniatura di fondamenta in cemento; un minuzioso rilievo orografico ottenuto da un campionario di parquet; una sorta di "palestra" per allenare alla resistenza i materiali. L'insieme, nel complesso, ricordava una satira o una critica delle sale dedicate allo "studio al lavoro" nelle mostre di architettura: dello studio architettonico si ritrovavano materiali e forme, almeno a prima vista. Oltre a un commento scettico e affascinato al contempo alla pratica architettonica, il progetto di Weeks sembrava anche chiosare l'idea di esibire un processo creativo (almeno nel caso dell'architettura), la sua impossibilità. È paradossale, forse, che il suo Open Studio e quello di Bonfili – che ha deciso di ignorare del tutto la dimensione laboratoriale – che o non erano studi o erano chiusi, insomma, fossero i più riusciti.
Fino al 22 luglio 2012
Open Studio
MACRO
via Nizza 138, Roma