Se la figura geometrica del triangolo come simbolo del ritorno all’unità primordiale e del rapporto con il Trascendente appartiene, con le rispettive varianti, a tutte le tradizioni – dalla Tetraktys pitagorica, alla trinità cristiana, alla simbologia esoterico-massonica – per un architetto a volte trovarsi a progettare un impianto triangolare può essere meno evocativo.
È il caso di interventi incastonati tra innesti viabilistici ed edificazioni esistenti, o in generale in aree fortemente condizionate da un punto di vista planivolumetrico e spesso ritenute residuali e meno appetibili per il mercato proprio per la loro singolare conformazione. Per quanto, infatti, il triangolo sia ampiamente utilizzato in architettura come elemento sia compositivo sia strutturale (basti pensare alle travi reticolari), una pianta triangolare implica spazi irregolari e inusuali, talvolta a discapito della funzionalità, che possono disorientare il progettista.
Tuttavia, come dimostra la storia dell’architettura, opere scaturite da forti vincoli sono state spesso emblematiche di una capacità progettuale in grado di aggirare efficacemente gli ostacoli divenendo, proprio in ragione delle proprie peculiarità, elementi fortemente riconoscibili e identitari nel paesaggio urbano. È il caso di alcuni edifici “flatiron” – riuniti in una famiglia dal nome del più famoso “ferro da stiro” di Burnham affacciato su Madison Square a New York – che proponiamo di seguito: edifici che, dalle origini ottocentesche (Antonelli, Robert jr, Février, Hudec), ad opere contemporanee (Nagy architects, Durbach Block Jaggers Architects, Eastern Design Office, Starh) hanno saputo trasformare la difficoltà in opportunità e valorizzare le qualità dinamiche della “obbligata” forma triangolare, tra spigoli stondati e accentuati angoli acuti.