“Una catasta di cubi: Habitat ’67 (...) è un complesso di abitazioni (160 appartamenti), formato da 354 ‘scatole’ in cemento armato precompresso, prefabbricate, collocate al loro posto da una gru e tenute assieme tramite cavi, completamente attrezzate di impianti ed apparecchi. La costruzione è permanente e dovrebbe completarsi in una sorta di villaggio multi-piani (scuole, negozi)”. È il gennaio 1967 e a Montréal, Québec, sta per arrivare l’Esposizione Universale, un evento che lascerà alla città fama mondiale, un debito degno delle casse di un qualche stato sovrano, e alcune tra le architetture più iconiche di un'epoca e di un pensiero nuovo sullo spazio, caricato delle istanze politiche di una risposta alla globalizzazione e urbanizzazione del mondo, del dare forma e linguaggio a questa risposta.
Oltre il brutalismo: ritorno ad Habitat 67, l’utopia costruita di Moshe Safdie
Tra i fuochi d’artificio dell’Expo di Montréal e il gelo degli inverni canadesi, la storia del complesso abitativo nelle pagine dell’archivio Domus e nelle fotografie di Roberto Conte.
Foto Roberto Conte
Foto Roberto Conte
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Foto Roberto Conte
Foto Roberto Conte
Foto Roberto Conte
Foto Roberto Conte
Foto Roberto Conte
Foto Roberto Conte
Foto Roberto Conte
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Domus 446, gennaio 1967
Domus 446, gennaio 1967
Domus 446, gennaio 1967
Domus 446, gennaio 1967
Domus 446, gennaio 1967
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- Giovanni Comoglio
- 22 settembre 2022
Una di queste architetture è la cupola geodetica di Buckminster Fuller, l’altra appunto Habitat 67, il cluster abitativo che si alza di 40 metri sul Mackay Pier, in tre piramidi allineate lungo il fiume Saint Laurent, ed è instant icon fin dalle foto di cantiere: lo ha progettato un giovane architetto israeliano, Moshe Safdie – che è però una gloria locale, coi suoi studi alla McGill University prima della pratica con Louis Kahn – e solleva subito le attenzioni, polarizzandole in un facile “hate it or love it”.
“Credo che gli edifici assumano vita propria, secondo come vengono usati e secondo il rapporto che le persone hanno con essi. Cambiano. Guarda Habitat: cambia anche il significato. Da un lato si è imborghesito più di quanto non avessi mai pensato. Ma di recente ho trovato degli articoli su Habitat che parlano delle sue qualità formali simboliche, non delle cose di cui parlavo io cinquant’anni fa. L’attenzione va di volta in volta a cose differenti”. Racconta così Safdie a Domus, decenni dopo. Infatti, in 55 anni di vita successiva, il complesso prototipo abitativo non viene accresciuto incrementalmente, come già da progetto avrebbe potuto, per rispondere all’esplosione prevista dei centri urbani. Consolida però il suo valore di edificio manifesto, sempre lì sulla riva del Saint Laurent a far presente che un altro abitare è possibile.
Gli si fanno gli auguri dei 50 anni, nel 2018 Safdie stesso restaura la sua unità personale e la dona al pubblico, a inizio 2022 Roberto Conte torna per un’esplorazione che mette Habitat 67 alla prova dei rigori glaciali dell’inverno canadese, ponendolo in contrasto, o forse più correttamente in armonia, con il paesaggio visuale degli interni tanto dichiaratamente “utopia costruita”, e tanto capaci di radicarsi nel reale e nel suo evolvere. “Quando mi trovo ad Habitat mi pare che l’abbia progettato qualcun altro” aveva detto Safdie “È come la storia. Ci vivono dentro. Ha cinquant’anni. Ci giro dentro e mi dico: non c’è male per una signora cinquantenne. Ma ci sono ancora elementi di Habitat in tutto quel che faccio oggi. Anche l’Habitat del Futuro (progetto di evoluzione più recente, NdR) si basa su quello originale per farlo progredire”.