Con un curriculum invidiabile che vanta interventi da Documenta 11, al Museo del Belvedere, il Museo di Arti Decorative, la Fashion Gallery di Berlino e l’Herzog Anton Ulrich Museum a Brunswick tra gli altri, lo studio Kuehn Malvezzi, di base a Berlino è formato dal trio di architetti Simona Malvezzi (con base anche a Milano) insieme ai due fratelli Wilfried e Johannes Kuehn. Recentemente ha siglato un progetto audace – per non dire utopico, alla luce delle diverse tensioni subite dalle comunità religiose (di qualsiasi genere), e di cui la cronaca inesorabilmente ci aggiorna. Sorgerà tra un paio d’anni nel cuore di Berlino, si chiama The House of One, e ha l’ambizione di riunire sotto un unico tetto (leggere, far serenamente convivere) le tre religioni abramitiche – a dire che dove non riesce l’uomo, riesce l’architettura.
Un gesto enorme a cui non serve aggiungere parole, un’occasione unica nel suo genere che lo studio tedesco ha sviluppato in maniera rigorosa anche a livello formale, non solo nel scegliere la piazza centrale come luogo di incontro materiale e simbolico e rispettando le difformità dei tre culti negli spazi a loro dedicati, ma scegliendo la corrispondenza di linguaggio sia dell’interno e dell’estero della costruzione stessa. Come lavorano insieme e perché lo fanno con successo da anni, lo raccontano a Domus – che nel 2019 li aveva già inclusi nel Domus 100+ Best World Architecture Firms Guide.
Da quanto tempo lavorate insieme e come intendete il vostro processo progettuale?
Wilfried Kuehn: Abbiamo iniziato a lavorare insieme intorno al Duemila. Ci lega una visione dell’architettura che abbiamo chiamato architettura curatoriale in quanto è anti-spettacolare e basata sulla collaborazione non soltanto tra di noi ma anche con altre discipline, con artisti, fotografi, paesaggisti ed altri. Dall’inizio dei lavori, intendiamo il processo progettuale come un insieme di varie discipline che partecipano tutte assieme alle “decisioni architettoniche”. Perció non vantiamo uno stile riconoscibile, ma trattiamo ogni progetto come una esperienza particolare legata ad un contesto preciso, in modo analogo all’esperienza dell’arte concettuale nell’intervenire in luoghi e situazioni ben precisi. Questo ci permette di dare molta importanza al fruitore degli spazi. Avendo fatto anche molti allestimenti a partire da quello per Documenta 11, nel 2001, abbiamo sviluppato una tecnica di ascolto e coinvolgimento di artisti e curatori poi applicata anche a progetti come House of One, quindi nel dialogo con rabbini, preti e imam.
Chi fa che cosa in studio, nel caso abbiate mansioni diverse?Simona Malvezzi: Proviamo molto piacere nella collaborazione tra di noi e perciò non abbiamo mai cercato di specializzarci dividendo il lavoro. Dunque ci scambiamo idee su tutto e su tutti i progetti. Questo principio lo si estende anche ai nostri bravissimi collaboratori, alcuni dei quali lavorano con noi da tanto tempo.
Come è nata l’ispirazione per The House of One, e chi ha scelto questo nome?
Johannes Kuehn: Il progetto è stato ideato da un prete, un rabbino ed un imam che hanno anche scelto il nome. La Berlino contemporanea è una città fortemente laica. Storicamente la città era cristiana ma è cresciuta politicamente per via di più migrazioni da parte di popolazioni di fede diversa, tollerate dalla monarchia prussiana, perseguitati altrove come ad esempio gli ugonotti francesi e gli ebrei. Le migrazioni dal XX secolo fino ad oggi hanno portato anche molti musulmani a Berlino. Se si guarda la mappa della città però, si nota subito che nel centro si trovano moltissime chiese, poche sinagoge, ma nessuna moschea. House of One, che sorge nella parte più storica e centrale della città, è dunque un gesto forte nato da un’idea della comunità protestante di condividere il sito con le altre due fedi abramitiche, anziché costruirci una nuova chiesa.
House of One, (...) è dunque un gesto forte nato da un’idea della comunità protestante di condividere il sito con le altre due fedi abramitiche, anziché costruirci una nuova chiesa.
Esiste quindi una ragione particolare per cui si trova a in questa città, e in un posto preciso come Petriplatz.
SM: Si esatto. Il progetto si innesterà sulle fondamenta della chiesa St. Petri, una costruzione ottocentesca demolita dal governo della Germania dell’Est nel 1964. La prima chiesa in quel luogo era del 1230, era il primo luogo documentato della città di Berlino, un luogo centrale e storicamente importante. Come detto, la comunità protestante a cui doveva essere restituita la proprietà dopo la riunificazione, ha pensato di coinvolgere le altre due comunità. Insieme hanno concepito un centro interreligioso delle tre religioni abramitiche. Per questa tipologia inedita, attraverso un concorso di architettura, è stato scelto il nostro progetto che parte precisamente da questo contesto, in quanto segue con la sagoma del nuovo fabbricato le vecchie fondazioni ancora sul luogo e sulle quali sorge idealmente ma anche fisicamente.
Cosa significa per un progettista costruire un luogo di culto?
WK: Non esiste una risposta precisa credo. Nel caso specifico la decisione di costruire senza soluzione di continuità̀ sulle fondamenta è legata all’idea che un luogo di culto situato in questa specifica area, dovrà quindi instaurare un rapporto con il luogo di culto precedente – la primissima chiesa medievale della città. Il progetto non prevede soltanto una chiesa ma uno spazio che riunisca tre culti, il che vuol dire che si deve stabilire un dialogo attraverso lo spazio. A nostro avviso, diventa decisivo lo spazio di relazione che abbiamo progettato, cioè quello che su trova al centro della struttura e che riunisce intorno a sé sinagoga, chiesa e moschea come edifici attorno ad una piazza urbana. Questo concetto fa dell’interno dell’edificio un luogo urbano. Abbiamo fin dall’inizio progettato un corpo di fabbrica in muratura massiccia identico dentro e fuori, facendo diventare i muri interni delle facciate in mattoni a vista uguali a quelli esterni. Questo principio della muratura autentica e scarna prosegue ugualmente nei tre luoghi di culto, i quali si distinguono invece l’un dall’altro per la drammaturgia della luce naturale, che varia da moschea a sinagoga o a chiesa, in modo da creare tre ambienti diversi.
Quale il criterio seguito per la progettazione di House of One?
SM: La sequenza degli spazi segue il principio della molteplicità in un’unità, e allo stesso tempo dell’eterogeneità in un unico edificio. I rituali sono differenti e non mischiati, ma nonostante questo l’edificio viene costruito con la sfida dell’essere universale. Per noi, in quanto progettisti, é interessante rendere dal punto di vista costruttivo questa prospettiva interculturale ed universale. Noi vediamo in questa tensione tra specifico e generico anche il compito dell’architettura. Il concetto su cui si basa la House of One è il dialogo e per aprire un dialogo, un dibattito bisogna avere conoscenza dell’altro e del suo modo di pensare. Questo progetto oltre a diventare un luogo di culto sta creando un centro di educazione che si rivolge a tutti, anche e soprattutto alle persone agnostiche e laiche.
L’edificio è stato finanziato e inizieranno i lavori a breve; quali i tempi e quali le aspettative per un progetto cosi ambizioso che va oltre l'architettura
JK: Il cantiere è iniziato a maggio del 2021, e durerà almeno due anni. Noi ci auguriamo che diventi un modello esportabile di dialogo tra le comunità in una reale dimensione di diversità, in cui differenti identità entrano in contatto tra loro, in uno spazio che le preservi le loro peculiarità ma che allo stesso tempo le faccia incontrare. È proprio intorno a questa idea che The House of One si è sviluppato.