Josef Albers comincia a fotografare nel periodo del Bauhaus, e nel corso degli anni usa la fotografia sia come strumento didattico sia per documentare i suoi viaggi. I viaggi dei coniugi Albers in Messico e America Latina sono concentrati nel periodo che va dal 1934 all’estate del 1956, viaggi regolari con l’unica interruzione nel periodo durante la Seconda Guerra Mondiale.
Per Albers la fotografia non è un modo per fare arte, ma un metodo per raccogliere idee, prendere appunti, uno strumento per interpretare il reale. Nel corso degli anni realizza diversi tipi di lavori fotografici. I foto collage del periodo del Bauhaus creano sequenze che producono una visione cinematica del soggetto, le foto sono montate su cartoncini sempre dello stesso formato e gli scatti sono organizzati per produrre significato attraverso l’accostamento di punti di vista diversi. Nessun taglio dell’immagine: le foto sono utilizzate nella loro interezza, mai frammentate ne manipolate (un modo forse per differenziarsi da Laszlo Moholy-Nagy che al Bauhaus teorizzava un uso artistico della nuova arte).
Le fotografie di viaggio alternano singoli scatti a combinazioni con cartoline e contatti organizzati su griglie regolari, e documentano l’interesse e la sintonia di Albers nei riguardi dei luoghi visitati, delle tradizioni locali, delle forme ripetute. Albers considerava queste fotografie come qualcosa di personale, non come un’espressione artistica di per sé, un mondo privato capace di coinvolgere e amplificare il proprio immaginario. Durante la sua vita non usa mai le fotografie per accompagnare il suo lavoro, mai l’artista tedesco pensa ad organizzare una mostra delle sue foto. La fotografia per Albers era qualcosa d’altro. Le foto riemergono dall’archivio dopo la sua morte, e sono oggi documenti importantissimi per ricostruire la sua modalità di lavoro e di pensiero. Diverse foto accompagno le sue mostre più recenti, sempre utilizzate per completare ed amplificare la ricerca sulla forma e contribuiscono in modo perfetto a capire il suo sguardo sul mondo.
Il Messico rappresenta la libertà che le responsabilità dell’insegnamento non dava agli Albers nei lunghi periodi al Black Mountain College, un’occasione unica per immergersi nella ricerca artistica. Ma non solo. Rappresenta anche la possibilità della riscoperta di una tradizione artistica perduta nel tempo che proprio in quel periodo tornava alla luce grazie alle campagne di scavi nei siti archeologici, che nei suoi diversi viaggi Albers segue e documenta. Il Messico è anche l’occasione per entrare in contatto con artisti e intellettuali del posto, che lo aiutano a capire il legame di questo Paese tra il contemporaneo e le tradizioni più antiche.
Il Messico è veramente la terra promessa dell'arte astratta, che qui ha migliaia di anni
I viaggi erano un momento di confronto tra i due coniugi che guardavano e traducevano le suggestioni di ciò che osservavano in modi diversi, attraverso un approccio artistico. “We have had completely marvelous summer here in Mexico, three months in this wonderful country… a place for art as it existed in the past, wonderful ancient art, hardly discovered yet, hardly excavated” diceva Anni Albers. “Mexico, is truly the promised land of abstract art, which here is thousands of years old” scriveva invece Josef Albers sottolineando nella sua corrispondenza con Kandisky di quanto il Messico e i viaggi siano un inesauribile fonte di ispirazione e un motore per la creatività di un artista.
Le fotografie documentano il mondo reale invece di definire un’estetica e colgono l’essenza dei luoghi, leggono tra le geometrie nascoste, definiscono un vocabolario formale capace di essere prima metabolizzato e poi reinterpretato attraverso gli strumenti dell’arte cari ad Albers, pittura e grafica. Rappresentano le tracce di un’invenzione creativa. Ciò che Albers sembra proporci in modo estremamente semplice è di contrapporre a un uso seduttivo dell’immagine, solo alcuni scatti infatti ci attraggono per la loro estetica, il valore documentale, nulla di più. In questo modo l’immagine è in grado di trovare quell’autonomia necessaria per inventare il proprio futuro. Le immagini di Albers scattate alla fine degli anni Trenta del secolo scorso resistono quindi a un qualsiasi tipo di classificazione tradizionale.
Josef e Anni hanno viaggiato assieme, e nonostante sia Josef il fotografo, rimangono sospese le foto che lo ritraggono e senza dubbio il materiale che documenta i viaggi è stato di supporto al lavoro di entrambi, la scelta dei soggetti, dunque, può alle volte essere stata frutto di un confronto diretto tra i due. Come ho già accennato in precedenza il grande archivio di fotografia è ancora oggetto di studi approfonditi e molte delle fotografie non sono state mai mostrate. Il lavoro va guardato quindi attraverso la lente delle opere realizzate nello stesso momento. Le fotografie, infatti, nascondono le tracce dell’arte di Albers.
Le linee in movimento si cristallizzano prima nella mente dell’artista e poi diventano opere d’arte uniche basta ricordare Variant/Adobe (1946-1966) e Omaggio al Quadrato (1950-1976). Le immagini impresse dentro l’autore, almeno per un determinato momento, sono una testimonianza del suo modo di guardare il mondo.
Questa trasformazione dello sguardo è dunque una trasformazione del pensiero. Le immagini scorrono, cambiano, passano velocemente, la fotografia le fissa in uno spazio e in un tempo, quando poi nel momento dello sviluppo e della selezione diventano motivo di una riflessione più profonda, si trasformano in una promessa. Il sovrapporsi tra immagini e situazioni è quello che ci permette di comprendere meglio quello che stiamo pensando e nel caso degli Albers sicuramente, quello a cui da un’intera vita stavano cercando.
Albers arriva in Messico senza una preparazione specifica: non studiava la storia dei luoghi e amava andare alla scoperta senza nessuna sovrastruttura imposta, preferiva l’osservazione diretta alle informazioni accumulate indirettamente. Le stesse fotografie ci forniscono una chiara evidenza di questo metodo di ricerca tramite la curiosità dello sguardo.
“Se l’arte è un aspetto essenziale della cultura e della vita, allora non dobbiamo far si che i nostri allievi diventino storici dell’arte o imitatori del passato ma, piuttosto, dobbiamo educarli alla visione dell’arte, all’operare artistico e ancor di più al vivere artistico. Poiché la visione e il vivere artistici sono un vedere e un vivere più profondi…” scriveva.
Dai viaggi ritornava sempre con una serie di oggetti acquistati sul luogo che arricchivano una sorta di archivio da accostare alle fotografie, il reale si sovrappone sempre alla sua rappresentazione, gli oggetti denunciavano sempre la loro estrema chiarezza e funzionalità attraverso la loro consistenza dove la pietra è pietra e l’argilla è l’argilla.
Se l’arte è un aspetto essenziale della cultura e della vita, allora non dobbiamo far si che i nostri allievi diventino storici dell’arte o imitatori del passato
Albers era convinto che la fotografia fosse lo strumento di un linguaggio visivo universale, un punto di partenza importantissimo di comunicazione, scrive nel suo unico saggio sulla fotografia: “Il detto che una fotografia non mente mai è una bugia” dopo questa dichiarazione descrive infatti con grande cura le differenze che esistono tra ciò che l’occhio vede e quello che la lente riesce invece a catturare, sottolineando come comprendere questo sia il compito del fotografo meticoloso. Ma in realtà Albers sembra essere attratto dalle possibilità di distorcere il reale.
Alcune foto, infatti, sembrano seguire questa regola sulla rappresentazione, ma alcune inquadrature e il fatto stesso di creare montaggi, sembrano invece ricercare ciò che l’occhio attraverso lo sguardo unico non è capace di cogliere. La fotografia è uno strumento di lettura e documentazione ma è anche capace di produrre una nuova visione. Questa visione è qualcosa di difficile da rappresentare attraverso l’immagine fotografica e viene tradotta, in un secondo tempo da Albers, in immagine pittorica. La fotografia non è per Albers un prodotto finale, ma un punto di partenza per lavori futuri, un archivio necessario alla sua immaginazione, che raccoglie strutture tridimensionali, volumi, texture ma anche memorie di persone e luoghi capaci dialogare con il suo mondo interiore.