“Questo decennio non ci lascerà altro che meme.” A questa frase, talvolta ancora pronunciata con malcelato biasimo, si possono mediamente registrare due risposte: “Ok boomer” la prima, “È assolutamente vero” la seconda. Fun fact: entrambe sono molto probabilmente corrette.
Le arene del dibattito sono mutevoli da sempre. Nella storia generale come in quella dell’architettura arrivano quei momenti in cui si coglie uno spostamento del centro di discussione, una specie di FOMO (la fear of missing out flagello degli anni ’10) della teoria e del dibattito: è raro che l’architettura, nonostante sia una delle discipline più loquaci, si renda conto di quale luogo e soprattutto quali media stiano strutturando il suo dibattito interno nei tempi giusti, o per lo meno in tempo reale. In un quadro che più postmoderno non potrebbe essere, c’è poco di più adatto dei meme — con le loro trasposizioni di significato, con la rivendicazione del brutto, dell’internet ugly come arma contro le rifiniture glossy delle estetiche ormai ufficiali e validate da vari poteri — ad incrociare il maggior numero di diversi ambiti, questioni, livelli di accesso a informazioni e cultura.
Lo scandalo degli stage non retribuiti sollevato l’anno scorso attraverso le polemiche social di Adam Nathaniel Furman, e l’onda di meme contestatori da esso generata, potrebbero costituire un segnale abbastanza forte di come la cosiddetta memesfera stia diventando “the hot issues factory”, il centro di trasformazione di scala delle questioni contemporanee, anche per l’architettura.
I meme di questi anni sono brutti, sporchi, cattivi, danno senso allo scrolling compulsivo dei telefoni, e facendo ridere in malo modo assaltano il mondo dell’architettura nel suo essere “bianco, occidentale, stonato, affetto da conflitti col potere per cui gli architetti pensano di averne un sacco ma in realtà si limitano ad andare a braccetto con chi sul serio ne ha.” Il “disciplinare” non è più visto solo come discussione su estetiche o politiche ufficiali, il meme non è più solo lo scherzo moscio su clienti, mancanza di sonno o caffè: l’architettura non può dirsi estranea al contemporaneo, fatto spesso più di razzismo, sessismo, segregazioni economiche o più ampiamente sociali, che non di pattern di facciata.
Abbiamo scambiato qualche parola con alcune pagine di meme dal mondo dell’architettura, in un tentativo di esperimento di psicanalisi memetica, di guardarsi dall’esterno e raccontare — oltre a ciò che avete letto fin qui — Just what is it that makes memes so different, so appealing?, in sintesi, l’origine e i limiti della critica nuova al mondo contemporaneo mossa dalla memesfera.
Già noto alla stampa, Ryan Scavnicky (@sssscavvvv), laureato in architettura e attivo nella teoria e nell’insegnamento, è già di per sé anomalo perché mette un nome e un volto dietro un profilo Instagram, ma per lui è proprio questo l’essenziale: poter associare la critica (avete provato le sue tips di modellazione per Rhino?) ad un nuovo tipo di figura, responsabile nel forzare a suon di scherzi anche dumb i limiti di cosa possiamo considerare in o out della disciplina. Il suo progetto è di portare il più gran numero di persone a creare meme e infiammare discussioni, e nasce da una frustrazione sulla comunicazione in architettura, sempre fatta per immagini totalmente positive e al 100% disciplinari.
La stessa frustrazione è quella che ha generato OH EM AYY (@oh.em.ayy), profilo stavolta rigorosamente anonimo, che vuole portarsi dietro lo spirito dei tempi da studente, ampliando però tutto quello spazio che nella scuola — americana, come la base del profilo — viene negato ad una critica che non sia solo estetica o tecnica: “la discussione nelle scuole è basic, confinata, per niente democratica, gli aspetti sociali e gli effetti dell’azione dell’architettura sulle comunità restano un tabù”
Di certo questi tabù sono il piatto forte dei pantagruelici pasti memetici di Dank Lloyd Wright (@dank.lloyd.wright), fonte delle prime citazioni in questo articolo, entità collettiva che guarda al mondo dalla West seaboard of Ohio, un “cucciolo parassita nato dal cadavere risuscitato di Frank Wright the Based God nel momento in cui il Covid stava cominciando a cambiare tutto”. DLW punta a sfidare tutte le ipocrisie caratterizzanti l’architettura oggi, vogliono che diventi più chiaro quanto la agency dell’architetto si collochi come un nodo all’interno di un sistema interconnesso, e che il culto dell’individuo venga immediatamente destituito.
I meme sono per loro una specie di Spongebob, spesso fatto di una battuta facile per i bambini con sotto una più profonda per i genitori, sono “quick and dirty, facili da consumare, la loro bruttezza, la loro narrativa impulsiva prende in giro tutto ciò contro cui si sono lanciati negli ultimi tempi”. Una loro specificità è l’essersi lanciati infatti spesso in connessioni tra determinate estetiche e determinate posizioni politiche, da che non ritengono l’estetica indipendente dal potere, e ne fanno una questione di “demolire canone architettonico bianco maschile e eurocentrico, e aiutare a riscrivere la storia con accuratezza e rappresentatività, rimuovendo stupratori, truffatori e impudenti imbroglioni già che ci siamo”. Amano la storia, dicono di averla imparata, dicono di farne qualcosa di scherzoso, per andare al di là dei modi passati di comprenderla.
Il soggetto più peculiare in questo panorama rimane Alvar Aaltissimo (@alvaraaltissimo), che nasce nel 2016 dalle schiume del Politecnico di Milano, inizia ad esprimersi per video e si consacra come progettista di meme. Si manifesta infatti per progetti, totalmente impermeabile alle dispotiche tempistiche dell’internet, silenzioso per mesi poi logorroico per giorni, si dà come missione il combattere le cifre per lui caratterizzanti la professione in Italia: banalità e lagnosità disfattista. Alvar Aaltissimo ha un approccio soluzionista: proponete, abbiate un minimo di amor di categoria e di ciò che i suoi strumenti possono dire. Da qui la ricerca di progetti storici (sapevate che Luigi Moretti aveva progettato una casa per Giulio Andreotti a Castel Gandolfo?) ma anche musei per le statue da abbattere, o soluzioni alla scala territoriale per l’Italia balneare del post-Covid .
Aspettando di capire se tutto questo ci possa davvero aiutare a maneggiare questa macchina postmoderna, o non ne faccia anch’esso parte, di sicuro non apriremo più i software BIM, né vedremo il celebrato corpo di Le Corbusier allo stesso modo, e consegneremo una volta per tutte la vignettistica al mondo delle retrospettive accademiche e delle aste vintage.