di Noel Nicolaus
Nel Marzo di quest’anno, la cultura techno di Berlino è entrata a far parte del patrimonio immateriale dell’Unesco, che tutela riti, tradizioni e festività di tutto il mondo. Una decisione che non ha mancato di suscitare qualche perplessità, ma per la quale ci sono ottime ragioni.
Perchè se è indubbio che House e Techno siano nate negli anni ’80 dall’estro delle comunità afroamericane di Chicago e Detroit, è altrettanto innegabile che a Berlino la musica elettronica abbia incontrato un ambiente storicamente unico, che ne ha favorito proliferazione ed evoluzione in movimento di massa. Uno sviluppo impensabile senza le vaste riserve di spazi abbandonati di cui la capitale tedesca disponeva all’indomani della caduta del muro, quando il crollo della Ddr e la fine dell’insularità di Berlino Ovest hanno creato immensi vuoti urbani che le sottoculture giovanili, prima fra tutte la techno, hanno saputo prontamente riempire.
Tuttavia, questa favola moderna negli anni scorsi ha subito una drastica cesura: la città sta cambiando e il numero dei club appare in costante calo, rendendo il Clubsterben (“morte dei club”) un vero e proprio problema politico. Secondo una ricerca del 2019, la Clubkultur attira a Berlino non meno di 3,5 milioni di turisti l’anno, generando un fatturato di almeno 1,5 miliardi di Euro. Senza considerare il ritorno di immagine per una città che compete con Londra e Parigi per il titolo europeo di capitale delle startup, spingendo founders e investitori a scommettere sulle notti del Berghain come Standortfaktor (= fattore strategico di localizzazione).
I club berlinesi si trovano così in una situazione paradossale: stretti da un lato nella morsa dell’inflazione e minacciati da una gentrificazione sempre più inesorabile, dall’altro godono di un supporto politico vasto e trasversale come non mai.
A Berlino la musica elettronica ha incontrato un ambiente che ne ha favorito proliferazione ed evoluzione in movimento di massa. Uno sviluppo impensabile senza gli spazi abbandonati di cui disponeva all’indomani della caduta del muro.
Per capire cosa rende tanto speciale la cultura techno berlinese, non si può fare a meno di parlare proprio di loro: i club. Il Clubkataster (letteralmente “Catasto dei Club”) creato dalla Clubcommission, associazione nata nel 2000 per tutelare gli interessi della scena notturna, nel 2023 ne contava 85 sparsi su tutto il territorio urbano, con una forte concentrazione nella parte Est, particolarmente nei quartieri di Friedrichshain e Kreuzberg.
Gli indimenticati: E-Werk e Bunker
Iniziamo ricordando due spazi che non esistono più, ma che hanno lasciato un’impronta indelebile nella memoria collettiva della città. Partiamo dal mitico “E-Werk”: nome che, come spesso succede ai club berlinesi, omaggia la funzione originaria dell’edificio che lo ospitava. In questo caso, una centrale elettrica, edificata nel 1885 e rimaneggiata tra il 1924 e il 1928 da Hans Heinrich Müller, campione locale del Backsteinexpressionismus (“espressionismo del mattone”).
L’E-Werk divenne negli anni ‘90, insieme al vicino Tresor (quello originale, ubicato su Leipziger Strasse – ne parleremo tra poco), uno dei principali incubatori della Clubkultur berlinese. Oggi quei tempi appaiono lontani, anche se gli attuali proprietari non mancano di rievocare questa movimentata storia al fine di promuoverne i vasti spazi post-industriali dell’edificio, sapientemente rinnovati da HS-Architekten, come location per patinati eventi commerciali.
Mentre all’E-Werk si ballava soprattutto House, i fan della musica Gabber e Tekkno Hardcore preferivano il “Bunker” di Albrechtstrasse, a pochi passi da Friedrichstrasse: un gigantesco rifugio antiaereo in stile neoclassico, costruito durante la seconda guerra mondiale da Karl Bonatz. Dopo essersi meritato la fama di club più “estremo” della città, venne chiuso nel 1996 dalle autorità per ragioni di sicurezza.
Oggi il Bunker – un immenso cubo di cemento armato di 18 metri per lato – non ospita più rave, ma opere d’arte. Per vederne i labirintici interni, basta prenotare una visita alla collezione privata di Christian e Karen Boros, tra i più noti mecenati della capitale. Sono solo in pochi, invece, ad aver avuto la fortuna di visitare lo spettacolare e lussuosissimo penthouse sul tetto, realizzato dallo studio berlinese Realarchitektur.
I club cult: Tresor e Bar 25
Come i club della categoria precedente, anche il “Tresor” nacque dalla contaminazione creativa di un edifico in rovina: più precisamente, il Kaufhaus Wertheim di Leipziger Platz, edificato tra il 1896 e il 1906 da Alfred Messel. Di questa spettacolare cattedrale del commercio, che a suo tempo affascinò il pubblico berlinese e ispirò architetti come Bruno Taut e Ludwig Mies van der Rohe, i tumulti della storia non avevano risparmiato altro che la gigantesca cassaforte sotterranea (“Tresor”, in tedesco, vuole dire appunto cassaforte). Dal 1991 al 2007, questi spazi dal fascino unico, a lungo dimenticati, hanno ospitato il club più famoso della città.
Chi ne volesse cercare le tracce, potrebbe rimanere deluso. In un certo senso, Leipziger Platz è tornata alle origini: dove un tempo risuonavano i suoni ipnotici della musica elettronica, oggi si erge la Mall of Berlin, un gigantesco, prevedibile centro commerciale firmato dallo studio Tchoban Voss. Sarebbe potuta andare diversamente: nel 1996, il co-fondatore del Tresor Dimitri Hegemann e il neo-proprietario dell’isolato, Peter Kottmair, avevano immaginato una “Tresor Tower”, con tanto di studi di registrazione, ristoranti, uffici per agenzie di booking e una stazione radio. Il progetto, firmato da Soeren Roehrs, non ha mai visto la luce, e il Tresor è stato costretto a trasferirsi in un’ex-centrale termica su Köpenicker Straße, dove si trova ancora oggi.
Anni dopo, l’idea ha trovato degli emuli coraggiosi: parliamo dei promotori dell’”Holzmarkt 25”, situato al numero 25 dell’omonima strada al confine tra Kreuzberg, Friedrichshain e Mitte. Una zona cruciale per la storia dei club berlinesi nati negli anni 2000: il “nuovo” Tresor dista solo poche centinaia di metri, esattamente come il mitico Berghain, di cui parleremo tra poco. Sulla carta, siamo una zona centralissima, ben dentro all’S-Bahn-Ring, l’anello ferroviario che funge da confine informale tra centro e periferia. In pratica, ci troviamo in una di quelle zone della città dove il tessuto urbano, anche 35 anni dopo la caduta del muro, appare slabbrato, incoerente, traumatizzato: indicatori affidabili del fatto che questa era una zona di confine tra Est e Ovest.
In questa terra di nessuno direttamente sulla Sprea, affittata per pochi soldi dalla compagnia municipale dei rifiuti, un gruppo di spiriti liberi con uno spiccato senso dello spettacolo e degli affari avrebbe creato nel 2003 la più famosa location per party afterhour di tutta la città. Leggenda vuole che il primo nucleo del Bar 25 sia stato costruito con materiali di recupero, ottenuti da un vicino cantiere in cambio di una cassa di birra. Ne risultò un’architettura unica, espansa negli anni fino a creare vero e proprio villaggio: un misto di Western Saloon, circo Barnum e shanti-town onirica. Un’estetica peculiare che avrebbe lasciato il segno, ispirando un numero importante di club nati attorno al 2010: “Sysyphos”, “Ritter Butzke” e “Wilde Renate”, per citare quelli più famosi e longevi.
Poi, nel 2010, l’epilogo. I terreni su cui sorgeva il Bar 25 fanno infatti parte di Mediaspree, il più controverso e discusso progetto di riqualificazione urbanistica della Berlino dei primi anni 2000. Il suo obbiettivo: convertire i terreni lungo la Sprea, dove un tempo correva la linea di demarcazione tra le due metà della città, in un proliferante distretto per le industrie creative. Peccato che, proprio mentre questo piano vedeva la luce e i terreni venivano venduti ai maggiori offerenti, questa terra nullius fosse diventata l’epicentro della clubkultur berlinese. A nulla sono serviti un referendum consultivo contrario e vaste manifestazioni promosse da un’insolita alleanza di raver, attivisti di sinistra e normali cittadini: oggi la zona è irriconoscibile, tra moderne arene polifunzionali, shopping mall e grattacieli.
Con un’importante eccezione. Con il sostegno di una fondazione svizzera, i cofondatori del Bar 25 sono infatti riusciti a creare una cooperativa, la Genossenschaft für urbane Kreativität (“Cooperativa per la Creatività Urbana”). L’obbiettivo: riqualificare la zona dove sorgeva il club. Il risultato è uno dei più controversi e insoliti esperimenti urbanistici della storia recente di Berlino, un centro urbano polifunzionale chiamato “Holzmarkt 25”, completo di bar, ristoranti, negozi, uffici, un’asilo – e un nuovo club, il “Kater Blau”. Per certi versi, la zona ricorda l’ultimo Tacheles (ne abbiamo parlato in questo articolo): una versione addomesticata della Berlino alternativa, dove portare genitori e amici in visita dall’estero, ma forse con un che di turistico e sterile.
L’icona: Berghain
Discutibilmente turistica, ma sicuramente tutt’altro che sterile, è la prossima location di cui tratterà questo articolo: stiamo parlando del Berghain, club al quale sono già stati dedicati un’infinità di articoli, libri e persino research paper. Più che rievocarne qui la complessa mitologia, ormai tanto nota da essere citata in film hollywoodiani e canzoni pop – la fila infinita all’ingresso, lo spietato processo di selezione, il carismatico buttafuori-cerbero Sven Marquardt, il leggendario impianto sonoro Funktion-One, le feste interminabili, le dark room – qui vogliamo concentrarci, come per gli altri locali citati, sulla storia e le caratteristiche dello spazio che lo ospitano.
Ancora una volta, una centrale termica: categoria architettonica che per le sue qualità intrinseche sembra prestarsi particolarmente al suo riutilizzo come club. Nel caso del Berghain (il nome è un ovvio ommaggio al Bezirk di Friedrichshain-Kreuzberg), parliamo di un’edificio costruito tra il 1952 e il 1955 per fornire energia alla vicina Stalinallee (oggi Karl-Marx-Allee), celebre viale monumentale in stile neoclassico socialista voluto dal dittatore sovietico Iosif Stalin.
La facciata, caratterizzata da una scansione verticale delle finestre e coronata da un’abbozzo minimalista di cornice, dona all’edificio le parvenze di un austero tempio post-industriale: un’estetica allo stesso tempo monumentale e spartana, che ben si presta a indurre nella lunga fila dei visitatori un senso di deferenza. La lunga, trepidante attesa per passare (o fallire) la temuta selezione, cede infine il passo a una veloce successione di spazi piccoli e angusti, in cui si manifestano gli altri aspetti del “rituale d’accesso”: la perquisizione delle borse; la copertura, tramite appositi adesivi, delle telecamere dei telefoni; e infine, la consacrazione definitiva dei fortunati attraverso il pagamento e l’elargizione del timbro d’ingresso. Ne segue un senso di spaesamento, che presto si trasforma in genuino stupore di fronte all’efficace mise-en-scène dei vasti spazi interni, alti fino a 18 metri.
Molto è stato scritto sul lavoro delle studio berlinese karhard, responsabile dell’allestimento del club. Una delle disamine migliori rimane quella di Christine Rüb e Anh-Linh-Ngo sulla rivista Arch+ (Arch+ 201/202, 2011: Berlin). Calzante la loro descrizione del Berghain come Ermöglichungsmaschine (“macchina abilitante”), un concetto ispirato al “Fun Palace” di Cedric Price: una sorta di “anti-edificio”, altamente flessibile, capace di contenere e incoraggiare una moltitudine di funzioni, definite dall’interazione del pubblico che ne attraversa gli spazi.
Si potrebbe persino scomodare un concetto classico come quello di Gesamtkunstwerk: architettura, fotografia, design, scultura, e ovviamente musica e performatività – del pubblico, del personale e degli artisti – convergono infatti nel Berghain per creare un esperienza totalizzante, che non sembra fuoriluogo accostare al concetto wagneriano di “opera d’arte totale”. Un’impressione rafforzata dall’importante presenza, in tutto l’edificio, di numerose installazioni e opere d’arte create su commissione (ricordiamo ad esempio i lavori di Piotr Nathan, Marc Brandenburg e Wolfgang Tillmans).
Le nuove leve: Alte Münze e Rso
Considerati questi precedenti, non stupisce quindi che il Berghain abbia beneficiato negli scorsi anni di finanziamenti pubblici di solito riservati ai teatri dell’opera, o che durante la pandemia si sia trasformato in un museo, con tanto di opere d’arte provenienti dalla collezione Boros (sì, quella del Bunker). Turistificazione e musealizzazione: sarà questo il futuro dei club di Berlino?
Una possibile risposta ce la forniscono gli ultimi due club di questa breve rassegna. Accomunati dalle dimensioni importanti del contesto in cui sono collocati, ma situati in punti geografici della città completamente agli antipodi: in pieno centro il primo, in periferia il secondo. Parliamo di “Alte Münze” e “Revier Süd-Ost”, o “Rso”, collocati rispettivamente in quella che un tempo era la vecchia zecca di stato e in un’ex-birreria.
A tre decadi di distanza dalla caduta del muro, nonostante significativi investimenti e progetti di riqualificazione, nella capitale tedesca (r)esistono ancora spazi importanti da riqualificare. Uno di questi si trova a poche centinaia di metri dalla famosa Alexanderplatz, di fronte al ricostruito Niklaiviertel: un eterogeneo insieme di edifici, in parte addirittura di origine barocca, dove a partire dagli anni ’30 fino al 2005 si trovava la zecca di stato. Dove per decenni sono state coniate Reichsmark, Deutsche Mark ed Euro, oggi si trovano atelier, cafe, spazi espositivi, e – ovviamente – un club. L’”Alte Münze” (“Vecchia zecca”) deve la sua fama principalmente ai party della serie “Pornceptual”, espressione di quello che è forse il fenomeno più influente della scena berlinese dell’ultimo decennio.
Parliamo della proliferazione dei cosiddetti party “sex positive”, serate nelle quali i partecipanti sono invitati e creare un “safe space”, uno spazio sicuro nel quale poter esplorare la propria identità di genere e le proprie fantasie, all’insegna della tolleranza, dell’empatia e del rispetto reciproco. Sessualità ed erotismo sono da sempre una componente importante della scena techno berlinese, ma un ruolo d’avanguardia nel connettere il mondo “kinky” e bdsm, tutto sommato di nicchia, alle serate più mainstream della scena techno, va riconosciuto al famoso KitKat Club, ubicato a poche centinaia di metri dal nuovo Tresor. È stato il KitKat a ospitare nel 2011 i primi party della serie “Gegen”, cofondati e organizzati da tre italiani: Francesco "Warbear" Fabio "Boxikus" e Alessia "A/Ona".
@stellabossi Welcome to the Kit Kat Club. Come to my parties! They are legendary 🔥 IG: Stella Bossi #kitkatclub #berlin #clubs #techno #030 ♬ Originalton - Stella Bossi
A più di dieci anni dalla sua fondazione, “Gegen” continua a godere di ottima salute, tanto che gli spazi labirintici e angusti del KitKat si sono rivelati troppo piccoli per contenere le folle attirate dall’evento. L’evento è stato così trasferito al “Revier Süd-Ost” (Rso), club erede della famosa “Griessmühle” (“mulino per la semola” – sì, era veramente un mulino!) die Neukölln, costretta a chiudere per far spazio ad un campus di uffici. Dettaglio importante: l’Rso si trova in un ex-birreria a Schöneweide, quartiere nella profonda periferia Est della capitale. Grazie alla sua importante eredità industriale, negli ultimi tempi questa zona ha vissuto uno sviluppo notevole, attirando artisti e creativi in fuga dalla rampante gentrificazione dei quartieri centrali. Ancora pochi anni fa, un club a più di 40 minuti di treno dal centro sarebbe stato impensabile: oggi l’Rso è forse il prototipo di quello che potrebbe essere il futuro della scena techno berlinese.
Alla fine di questo viaggio nel mondo della Techno berlinese, rimane la domanda: la promozione a cultura “alta” salverà la Clubkultur berlinese, o ne segnerà piuttosto il declino definitivo? Probabilmente entrambe le cose – anche se sembra ancora presto per esprimere un giudizio. Sicuramente, anche in futuro varrà la pena di continuare a osservare qesta parte peculiare della scena culturale della capitale tedesca, la cui sorte rimane indissolubilmente legata al destino della città.
Immagine di apertura: foto Stefanie Loos