Qual è il senso del minimalismo nel 2023? Ne ha ancora uno? Ha ancora senso andare alla ricerca di grandi figure a cui porre domande simili?
Forse il tempo è maturo per liberarci delle categorie ancora novecentesche che hanno ingabbiato il discorso architettonico fin dagli anni 2000, e forse la parte più scioccante potrebbe essere scoprire che la possibilità ce l’avevamo sotto gli occhi da lungo tempo, ed era incarnata da quelle stesse persone a cui avevamo imposto etichette di categoria.
John Pawson – che come scriveva Rowan Moore sul Guardian, “è l’architetto allo stesso tempo benedetto e maledetto dall’etichetta di ‘minimalista’” – ha proprio quella cifra, della dissacrazione ironica degna delle migliori interviste di Magistretti, e di una profondissima mistica della pratica progettuale: e bisogna tenersi forte quando si arriva a parlare di cosa sia per lui questa pratica, come la vive e come l’ha vissuta. A punto che partiamo da cosa significhi essere John Pawson, per poterci interrogare su un modo di fare architetture, oggi.
La prima risposta a quest’ultimo interrogativo è: “diverso da qualsiasi aspettativa di irraggiungibile ascesi”. Tacta, la sua prima sedia, appena progettata, è nata perché dall’azienda friulana Passoni hanno pensato a lui, gli hanno inviato una mail, e lui ha risposto. As simple as that (as minimal?). C’era una possibilità nell’aria, e Pawson l’ha recepita e istintivamente seguita.
Non c’è quindi nessun epico percorso formativo, tra mistica esoterica, religioni e conventi in cima ad impervie montagne, per diventare padri del minimalismo. O meglio, a sentire la biografia di Pawson, c’è stato esattamente quello. Ma non esattamente nei termini in cui qualsiasi blockbuster anni 2000 ci avrebbe raccontato la genesi di un eroe: a dirla tutta, i termini sono proprio opposti, umani, antieroici.
“Io vengo da Halifax, nel West Riding of Yorkshire”, ci racconta Pawson, “è in una conca, una delle prime città industrializzate grazie alla lavorazione della lana proveniente dalle pecore della brughiera intorno, quindi fisicamente è un paesaggio senza alberi, e l’architettura è tutta fatta di pietra di York. Muri in pietra, pavimenti in pietra, soffitti in pietra, tetti in pietra. Molto, molto semplice. E siccome il nord dell'Inghilterra era anti-cattolico, grazie ai predicatori wesleyani la Chiesa metodista era molto popolare. I miei nonni erano metodisti di nascita, andavano in chiesa due volte la domenica e conoscevano la musica solo cantando. Mia madre conduceva una vita molto modesta e semplice, anche se la sua era una famiglia di grande successo nel settore tessile.
“Sono poi andato in Giappone per quattro anni, per cercare di diventare un monaco buddista zen, ma ho resistito una notte. Ho fallito completamente. Però ho incontrato Shiro Kuramata, un grande architetto e designer. È stato molto generoso con me, perché non sapeva chi fossi e cosa volessi: per lui ero un mistero, quindi ha pensato che fosse più sicuro essere gentile con questo ragazzo – avevo 24 anni – che gli si presentava”.
Kuramata avrebbe poi chiesto consiglio all'amico Arata Isozaki: “Lui gli ha detto ‘Dovrebbe andare alla scuola dell'Architectural Association a Londra e darsi un’istruzione”. E così ho fatto. Tuttavia, non ho resistito, e poi la mia ragazza mi ha chiesto di aiutarla a progettare il suo appartamento: l’ho fatto, in certi aspetti anche contro la sua volontà, e quello è stato il mio primo progetto, seguito dalla sua galleria e poi, pian piano da altri clienti che mi ha presentato. Non ho mai voluto un ufficio. Non ho mai voluto una carriera, quindi per i primi due anni non ho avuto documenti. Ho buttato via tutto. Odiavo avere libri in mostra o in ufficio. Voglio dire, ne avevo alcuni, ma odiavo l'idea di guardare un libro per avere un’idea”.
Si è trattato negli anni, ci dice, più di tradurre in forme fisiche alcune idee che per ragioni diverse la sua mente aveva sviluppato o conservato, in uno sperimentare continuo legato anche alla scarsa inclinazione che lui dice di avere per un disegno che non sia naïve: “La prima cosa che ho fatto è stata dotarmi di una disegnatrice molto abile e competente, una ragazza di nome Lauren Leatherbarrow, del Tennessee. Mi mettevo al suo fianco e dicevo quello che volevo, dirigendo le operazioni: e non è cambiato nulla, se non che ora ci sono 25 Lauren Leatherbarrow”.
Non ho mai voluto un ufficio. Non ho mai voluto una carriera, quindi per i primi due anni non ho avuto documenti. Ho buttato via tutto. Odiavo avere libri in mostra o in ufficio. Voglio dire, ne avevo alcuni, ma odiavo l'idea di guardare un libro per avere un’idea.
John Pawson
È quindi un discorso di biografia, panorama formativo, pratica quotidiana. Al contempo, però, “minimalismo” ha acquisito negli anni una sfumatura diluita, quasi di cliché, abbastanza distante dai principi artistici di Donald Judd e dei suoi Specific Objects, tanto che torniamo a chiederci con Pawson quale possa esserne il significato, il senso, negli anni ‘20 del ventunesimo secolo.
“Suppongo che sia una cosa tipica dello Yorkshire”, dice Pawson, “ma abbiamo quell’espressione per cui ‘Non si può protestare troppo’, non si può dire tutto il tempo ‘Non sono un minimalista’, perché è in quel momento che tutti ti applicheranno quell'etichetta. Minimalismo è una parola abusata e anche molto facile da fraintendere, perché si può usare per tante cose diverse. Judd, per esempio: credo che, se fosse stato sollecitato, avrebbe detto di essere piuttosto un essenzialista, uno che si occupa dell'essenziale.
Io dico sempre che il mio lavoro non è minimale: è molto complesso e non è economico. E non significa solo dipingere tutto di bianco o togliere cose. Si tratta di una situazione in cui tutto è in armonia. Non si tratta solo dell’architettura, degli interni o degli oggetti, ma anche di collocare qualcosa. Certo, è una cosa che si assimila nel corso degli anni, ma se si vedesse quanta cura è stata messa nel posizionare gli arredi, non li si vorrebbe più vedere spostati. Inoltre, io non sono nella posizione di sorvegliare o controllare alcunché, né lo vorrei: io progetto le cose per i clienti e poi loro vivono come vogliono. Ma ce ne sono alcuni dai quali sono stato a soggiornare, e forse il nuovo partner non ha idea di ciò che ho fatto e quindi ha riempito la casa di cose e, bene: non credevo che questo potesse arrivare a negare l'architettura, ma a quanto pare è possibile”.
Un altro luogo comune da confermare o sfatare è se questo tipo di approccio possa essere semplicemente etichettato come “una cosa per ricchi”, e ancora una volta Pawson mostra un atteggiamento molto diretto nel gestire questa questione: “Ho clienti molto ricchi, ma devono essere aperti a quello che facciamo: quando le persone vengono da noi, sanno già che vogliono quello che facciamo. Non cercano soltanto un architetto. A volte invece hanno pochi soldi, il che va benissimo. Il problema è che qualsiasi edificio di valore costa. ‘Ricchi’, poi, è relativo: è interessante anche il fatto che, chiunque essi siano, si dimostrano poi sempre molto attenti alle spese. Quando abbiamo iniziato a lavorare su alcuni edifici religiosi, ad esempio per i monaci cattolici, il monastero in Repubblica Ceca – stiamo ancora lavorando per loro – è stato interessante notare che erano i monaci giovani a non capire perché ci fosse bisogno di un’architettura sofisticata e magari più costosa, avrebbero preferito lavorare meno e studiare di più. I monaci più maturi hanno invece capito che se si deve vivere in un luogo di lavoro senza lasciarlo, è necessario che l’architettura sia di una certa qualità: se deve durare per sempre, deve essere speciale”.
Io dico sempre che il mio lavoro non è minimale: è molto complesso e non è economico. E non significa solo dipingere tutto di bianco o togliere cose. Si tratta di una situazione in cui tutto è in armonia.
John Pawson
Un quarto del lavoro di Pawson ora è costituito da edifici religiosi e il monastero è stato per lui il progetto di una vita. Vi ha persino soggiornato per alcune settimane, in un dormitorio, per condividere la vita con i monaci: alla fine è riuscito a stare in un monastero, si trattava solo di capire quale. Il resto del suo lavoro è bilanciato tra case private, un hotel per Ian Schrager, un'azienda vinicola; anche i mobili hanno un posto ora, l’esplorazione di diverse scale, ma gli edifici mantengono un posto prioritario: “Quando si tratta di un edificio, non si possono spostare le pareti. Se lo fai, finisci in un mare di guai. Lo facevo se non mi piaceva, quando ero giovane e impetuoso, spostavo pareti, abbassavo soffitti e travi: ci sono dei contenziosi ben documentati a riguardo, e non lo farò più. Ora ascolto. Sono un buon ascoltatore”.
E prima di lasciarci, Pawson stravolge ancora una volta la trama della nostra conversazione e, oseremmo dire, la storia del minimalismo, con una notizia molto legata a Domus: "Quando lavoravo con mio padre a Newcastle, c’era una scuola d’arte, dove andava Brian Ferry andava e insegnava Richard Hamilton- era il 1968 o il ‘69: avevano la prima copia di Domus che io abbia mai visto, ed è stato molto eccitante perché conteneva molte cose che non avevo mai visto – venivo da un contesto isolato – e il lavoro di Kuramata l’ho visto per la prima volta su Domus. Avevo circa 18 anni. Poi nel 1974 sono andato a trovarlo”.
È difficile per noi non pensare con orgoglio di aver effettivamente creato qualcosa, se non qualcuno, difficile resistere alla tentazione di titoli come Abbiamo creato John Pawson.
"No, anzi, potete farlo!” ci dice, di tutta risposta. “Sarebbe la pura verità”.
Quando lavoravo con mio padre a Newcastle, c'era una scuola d'arte: avevano la prima copia di Domus che io abbia mai visto (...) e il lavoro di Kuramata l’ho visto per la prima volta su Domus.
John Pawson