Sessant’anni fa, Smog (1962) di Franco Rossi inaugurava la XXIII edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Vittima del tracollo finanziario della Titanus e venduto anzitempo alla MGM in seguito alla coproduzione italo americana, Smog sparì dalla circolazione. Nessuna critica, ancor meno dal pubblico. L’unica copia in 35 mm è stata presentata nel 2022 al Cinema Ritrovato di Bologna. Primo film italo-americano interamente girato a Los Angeles, Smog si svolge durante un prolungato scalo aeroportuale tra Los Angeles e il Messico. 48 ore in cui Vittorio Ciocchetti, interpretato da Enrico Maria Salerno, un giovane avvocato romano, viene letteralmente e metaforicamente inserito nel flusso di traffico della città, privato della sua identità medio borghese da un’imponente assistente di volo.
Le vicissitudini portano il protagonista in un susseguirsi frenetico di incontri con italiani emigrati di media e lunga data. Una comitiva di non più tanto stranieri uniti al grido: “siamo in America con l’inventiva e allo sbaraglio”, Confortato dal cameratismo oltreoceano, l’avvocato Ciocchetti mostrerà progressivamente la sua (piuttosto infima) natura di figlio del boom economico.
Oltre a portare sullo schermo una visione italiana degli italiani emigrati in America (tra cui una scena di cui non potremo mai essere grati abbastanza di un italiano che sforna una pizza bruciata), Smog racconta un tema fondamentale per la cultura dei progettisti: lo scetticismo verso l’evoluzione, propria o impropria, delle forme dell’abitare (o delle infrastrutture).
Tre edifici iscritti nella storia del modernismo sono soggetti allo sguardo del protagonista e al suo consequenziale giudizio di condiscendenza: il Theme Building dell’aeroporto internazionale di Los Angeles, la Stahl House di Pierre Koenig e la Triponent House di Bernard Judge.
Il primo del 1961, progetto dello Studio Pereira & Luckman, porta con sé la prima reazione del protagonista: indifferenza. Un disco planato sulle colline della terra promessa e sorretto da 4 titaniche zampe arcuate di almeno 5 metri, concepito per guardare i passeggeri internazionali e ricordare loro quanto siano fuori scala. Ai suoi piedi (o meglio zampe), un suggestivo pergolato modulare rappresenta il primo iconico spazio a cui Ciocchetti dedica la presunzione di chi è figlio di una cultura millenaria. Il suo passaggio è contraddistinto dall’entusiasmo di chi attraversa il corridoio di casa propria. Un italiano all’estero convintamente impegnato a non sembrar tale.
L’interno più approfondito è quello della Triponent house, una cupola geodetica in Mylar, medesimo materiale di cui è rivestito lo Sputnik. Spazio di intenzionale semplicità: pelle di allumino e resina, nucleo bagno/cucina, oltre a questi, spazio. Una forma dell’abitare per cui un uomo non dovrà spendere la maggior parte della propria vita lavorativa per permettersi, sono le parole dello stesso Judge. Mossa dall’istinto primordiale di riappropriarsi della natura circostante, questa costruzione d’intento organico riassume il potenziale industriale e tecnico dell’America postbellica per costruire case a basso costo che possano rappresentare un’esperienza per i propri inquilini. La reazione del nostro compatriota non potrebbe allontanarsi di più dall’entusiasmo di questa citazione.
L’avvocato, infatti, palesemente divertito dal solo pensiero di poterne fare un riparo, arriva a mettere in discussione, in una conversazione con la futura proprietaria, la possibilità che un simile spazio possa contenere sentimenti. “Dunque lei vivrà davvero… come si può dire… in questa casa? Io non lo so, solo quando cade la pioggia a me viene l’angoscia, e poi crede davvero che qui possano esserci sentimenti, affetti, tutto quello che una famiglia richiede…” A onor del vero l’esperimento di Judge ebbe vita piuttosto breve, la moglie abitò nella bolla per un anno soltanto e la struttura venne smantellata nel 1977, ma questo Ciocchetti non poteva supporlo.
L’ultimo ambiente è rappresentato dalla Stahl House, nella trama, futura abitazione della protagonista femminile Gabriella (Annie Giradot). Progetto inizialmente frutto dei suoi proprietari, Buck e Carlotta Stahl, solo nel 57 assegnato Koening. Una visione che tanto deve a van der Rohe e che certamente rappresenta una forma dell’abitare più prossima alla tradizione rispetto al progetto di Judge. A Gabriella, italo americana allontanatasi da una paga di 50 lire direttamente girate alla domestica e unico vero personaggio positivo della trama, viene affidato il compito di umanizzare l’abitazione.
Da quando accompagna l’avvocato Ciocchetti attraverso la grande vetrata facendogli notare che quella è la porta d’ingresso, fino alle conversazioni meno piacevoli sulla morte del figlio dei precedenti proprietari annegato nella piscina a sbalzo che le hanno reso il prezzo di vendita accessibile. La casa per quanto non ammobiliata vive della presenza della sua futura proprietaria, ricordandoci come ogni rifugio sia il frutto di un desiderio individuale, e non possiamo che provare una sottile e infantile commozione quando sulla soglia, mentre sta per accompagnare l’avvocato a Culver City, questa gli chieda perché non saluta la sua casa prima di andar via, nell’ipotesi, più che concreta, di non rivederla mai più.
Lo stallo di Ciocchetti, costantemente relegata alla dimensione d’interno come ogni altro personaggio, si conclude circolarmente con tête-à-tête tra l’uomo e l’architettura, ma contrapposto alla placata superiorità ostentata nella passeggiata in aeroporto, lo troviamo, stavolta, prigioniero della Triponent House, nella prima e unica visione ferina e maligna dell’architettura avanguardista, cullato dal ricordo domestico della villa settecentesca della fidanzata Maria Beatrice che lo aspetta al suo ritorno.