Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1043, febbraio 2020
L’influsso di Le Corbusier sull’architettura italiana non è da sottovalutare, ma un’occhiata ai riferimenti all’Unité d’habitation di Marsiglia (1947-1952) su Domus suggerisce come gli architetti milanesi, invece d’imitare formalmente il modernista svizzero, s’impegnassero in un immaginario dialogo con lui, con l’obiettivo di elaborare posizioni proprie. Per esempio, un’adesione totale è implicita in Carlo Belli, il cui commento ricorda come negli anni Venti Gino Pollini e tutto il Gruppo 7 avessero “praticamente imparato a memoria” Vers une architecture, unendosi “nel nome di Le Corbusier” (Domus 687, 1987).
Andando più a fondo nella questione, l’elogio appare però alquanto ambiguo. In tre articoli di Carlo Enrico Rava, membro del gruppo, l’entusiasmo si alterna allo scetticismo. Rava loda lo spirito ‘mediterraneo’ di Le Corbusier (Domus 40, 1931) e il carattere “alla Rousseau” delle sue ville (Domus 74, 1934), ma ne sottolinea con disprezzo l’evidente affinità con il Costruttivismo russo (Domus 37, 1931).
Fu Gio Ponti a pubblicare le prime immagini dell’Unité su Domus e la sua approvazione, in un editoriale del 1949, era esplicita nella sua esortazione ad “andare a Marsiglia” (Domus 235, 1949). La pubblicazione del progetto prima del completamento va ascritta a merito del suo talento per la comunicazione di Le Corbusier, la cui battaglia per tutti gli anni Quaranta a favore dell’integrazione negli edifici di sculture, murali e altri manufatti artistici — assieme alla predilezione per le superfici grezze in architettura — contribuì ad accrescere il valore del calcestruzzo a vista.
Sotto questo aspetto, furono d’aiuto le fotografie in bianco e nero dell’Unité scattate da Lucien Hervé, che esaltavano i segni lasciati nel calcestruzzo dalle casseforme e le tracce manuali del frattazzo, altrimenti visti come difetti antiestetici da scongiurare. Ponti sosteneva Le Corbusier fin dagli anni Trenta ed evidentemente avvertiva l’urgenza di proposte architettoniche per le strade milanesi devastate dai bombardamenti.
Al lettore attento, però, non poteva sfuggire che a Milano un complesso delle dimensioni dell’Unité non avrebbe funzionato. Con i suoi 140 m di lunghezza e 52 m d’altezza era grande il doppio della Stazione Centrale ed era alta 20 m in più rispetto ai 32 m della Galleria Vittorio Emanuele II.
Ponti sosteneva Le Corbusier fin dagli anni Trenta ed evidentemente avvertiva l’urgenza di proposte architettoniche per le strade milanesi devastate dai bombardamenti. Al lettore attento, però, non poteva sfuggire che a Milano un complesso delle dimensioni dell’Unité non avrebbe funzionato
Invece di copiare l’Unité, gli architetti milanesi, nei loro siti di limitate dimensioni, avrebbero optato per una mediazione ricorrendo a tetti a terrazzo, piani terreni a pianta libera, percorsi interni e altre delle numerose idee dell’Unité. Il blocco residenziale di Luigi Figini e Gino Pollini in via Broletto, che ne è uno specifico esempio, adotta in modo brillante una struttura a griglia tridimensionale di calcestruzzo (Domus 239, 1949). L’edificio è suddiviso in due volumi per inserirsi senza compromessi in una fila di facciate su strada, espandendosi nel blocco con la stessa altezza.
Il risultato, elogiato da Ponti nel 1949, ricorda tanto la Casa del Fascio di Giuseppe Terragni quanto l’audace uso della struttura come cornice grafica e tettonica da parte di Le Corbusier nell’Unité. Tracce dell’Unité si scorgono qua e là in altri progetti, a mano a mano che l’economia di Milano riacquista vigore e il suo profilo urbano prende forma dopo la ricostruzione postbellica. Ponti le individuava nel Palace Hotel di Giorgio Ramponi, un grande e sottile blocco i cui pilotis a colonna definiscono l’atrio (Domus 249, 1950).
L’Unité torna poi come riferimento nell’Hilton Hotel di Istanbul di Skidmore, Owings & Merrill, con la sua combinazione di camere, negozi, banche e agenzie di viaggio (Domus 318, 1956). Alcuni anni dopo, a Vienna, il rizoma dell’Unité ritorna in un blocco residenziale orizzontale di BKK-2 che si avvolge intorno alla ciminiera di una fabbrica di casse funebri abbandonata. “Mentre la monumentalità dell’Unité è divenuta la pietra tombale [per i suoi abitanti, ndr]”, ci assicura l’autore, “il progetto della Sargfabrik è un vero successo” (Domus 809, 1998).
Ulteriori avvistamenti vengono segnalati in luoghi lontanissimi: per esempio, a Cambridge, Massachusetts, nella residenza per studenti Simmons Hall di Steven Holl, che sorge ai bordi di un campo sportivo (Domus 858, 2003); a New York [40 Bond di Herzog & de Meuron] e a Tokyo [Seijoville di Kazuyo Sejima], dove piccoli edifici con giardino privato formano aggregati plurifamiliari (Domus 910 e 915, 2008). Il tema di questi ultimi progetti è l’incarnazione fisica e logistica di una comunità nel monolite di un architetto. Come accade quando si è sulle tracce di un fuggitivo, ogni labile apparizione dell’Unité non fa che rendere più profondo il mistero del suo futuro.
Jacques Lucan, recensendo il progetto del nuovo municipio di Rezé, vicino a Nantes, osserva come Alessandro Anselmi abbia usato un grande complesso municipale a forma di cuneo per dare nuova vita all’adiacente, e in precedenza isolata, Unité di Nantes (Domus 710, 1989). Tra tutti i riferimenti all’Unité a partire dagli anni Cinquanta, questo è quello che meglio riesce a coinvolgere l’edificio di Le Corbusier come avevano fatto i razionalisti, affrontando la natura e lo scopo dell’architettura.
Immagine di apertura: foto del cantiere nel 1950, pubblicate su Domus 973 (2013) © Photographie Industrielle Sud Ouest, Bordeaux