Voi (Stefano Colombo, Eugenio Cosentino e Luca Marullo) avete fondato Parasite 2.0 nel 2010, ancora studenti. Dopo quasi otto anni di attività e numerosissimi progetti realizzati, venite ancora chiamati “un giovane studio emergente”. Credete sia un limite tutto italiano? È una questione anagrafica?
Questa denominazione è solo una strategia mediatica, di comunicazione, usata da riviste, curatori e spazi con cui ci confrontiamo. Non diamo molto peso alla cosa. In Italia l’etichetta di giovane o emergente porta spesso allo sfruttamento del lavoro, intellettuale o fisico che sia. Invece all’estero la nostra pratica non viene mai definita. Non ci viene neanche chiesto di chiarire dove ci posizioniamo, se all’interno del mondo dell’architettura, del design o delle arti visive.
Definite “architetto neofiliaco” come quella figura che genera continuamente conflitto. Qual è il vostro progetto che ha causato maggiori contrasti?
Qualsiasi progetto è conflittuale se si pone come piattaforma di relazione di figure differenti. La nostra prima occasione di scontro è stata il progetto Parasite Trip, che era parte del programma “Gran Touristas”, curato da Stefano Mirti, Remo Ricchetti e Daniele Mancini per il Padiglione Italia alla Biennale Architettura del 2012. Il nostro è stato un viaggio attraverso l’Italia, alla scoperta di architetture in abbandono in cui realizzavamo illegalmente degli interventi temporanei. Qualche settimana prima dell’intervento conclusivo ai Giardini della Biennale, ci è stato chiesto di ripensare e cambiarlo l’installazione. Abbiamo rifiutato di farlo e continuato a realizzare una serie di installazioni in giro per Venezia e sulle isole della Laguna. Successivamente ci siamo resi conto di aver costruito la nostra prima T.A.Z. (Temporary Autonomous Zone).
Un secondo momento di conflitto è stato il padiglione MAXXI Temporary School, realizzato a Roma nel 2016. Con il motto The museum is a school. The school is a battleground (“Il museo è una scuola. La scuola è un campo di battaglia”), il progetto agisce all’interno di un’istituzione pubblica e del premio YAP [Young Architect Program, ndr] per creare un luogo di dibattito e scontro. Abbiamo lavorato su più livelli: quello fisico e materiale dei padiglioni, quello virtuale di un’applicazione per smartphone e quello effimero di un programma di eventi e conferenze.
Qual è l’ambito che meglio si presta a tradurre la vostra ricerca?
In questo momento siamo molto concentrati sull’insegnamento, sulla progettazione di allestimenti per l’arte contemporanea, di oggetti d’uso ed eventi. Fortunatamente riusciamo a sviluppare la nostra ricerca in tutte queste occasioni. La didattica è sicuramente il momento in cui riusciamo ad espandere e tradurre i nostri discorsi al meglio.
Avete molto a cuore la dimensione comunitaria del design e dell'architettura, eppure molti vostri lavori indagano forme di autonomia progettuale, dove tramite semplici strumenti ogni individuo può comporre un proprio abaco di forme ed elementi. Non trovate che questi due aspetti siano tra loro contraddittori?
Non si può arrivare a nuove modalità collettive di dare forma all’habitat umano se prima non ci si è liberati di una serie di strutture di base, attraverso una presa di coscienza individuale.
Il conflitto tra artificio e natura è uno dei vostri temi chiave. In alcuni scritti auspicate a un ritorno alle origini, dove di fatto questo conflitto non esiste. Come vi muovete in questa ambiguità?
È un discorso molto complesso e in continua evoluzione anche nella nostra ricerca. Consideriamo l’architettura come l’elemento alla base dei processi di antropizzazione e quindi come l’inizio della scissione tra natura e artificio. Come afferma il filosofo Mckenzie Wark, il concetto di natura è una nostra costruzione, necessaria per affermare una differenza, per porre l’uomo fuori dall’insieme delle cose naturali. Serve a giustificazione la violenza con cui l’uomo si relaziona al mondo. La progettazione è fuori dai processi naturali solo perché abbiamo deciso di immaginarla così. Più che un ritorno alle origini, immaginiamo la revisione di alcuni aspetti legati all’antropizzazione, nuove forme di primitivismo immerse nel contemporaneo. Non a caso parliamo di futuro primitivo. È una ibridazione.
Possono convivere nello spazio domestico forme di vita collettive?Lo spazio domestico è un’utopia individuale alla scala del divano. È l’unico luogo in cui possono essere travalicati gli aspetti legislativi e normativi che determinano l’Architettura costruita, così da darci libertà di dare forma alle nostre “isole radicali”. Esistano già forme di abitare lo spazio domestico più collettive. Varie dinamiche economiche, sociali e tecnologiche, portano oggi lo spazio domestico ad assumere forme estremamente nuove, che travalicano aspetti come la privacy e la domesticità in generale. Crediamo sia inoltre lo spazio in cui in un certo senso si potranno osservare in maniera chiara i cambiamenti che stanno investendo la nostra società.
Questa intervista è parte di “Superdomestico. A dialogue on the new obsession for domesticity”, una ricerca a cura dello studio casatibuonsante architects e ciclo di conferenze promosse e ospitate da Ostello Bello, a Milano. L’obiettivo è quello di analizzare l’ambiente domestico e i suoi cambiamenti rispetto ai meccanismi del sistema economico contemporaneo.