Molti lavori esposti sono intrinsecamente protesi verso questa direzione, alcuni sembrano più appartenere a quella élite di architetti, che da sempre piace ai ricchi e che si veste con i panni dell’etica più per necessità mediatica che per reale vocazione.
È interessante la posizione presentata alla Biennale dalla Cina attraverso una riflessione a più voci sulle forme e sulle tecniche dell’architettura. Proprio questa nazione-continente, insieme all’Africa e all’India è – per numero e dimensioni che l’impatto dell’edilizia ha nell’economia e nella società e per la rapidità ed entità dei fenomeni di modernizzazione in corso – il caso più critico e rilevante per determinare e affermare un possibile ruolo sociale e collettivo dell’architettura.
Zhang Ke lancia una vera e propria battaglia contro la tabula rasa della città cinese, attraverso la rivisitazione degli hutong, tipologie tradizionali a corte, sostituite dai grattacieli di periferia tardo modernisti, per accogliere gli enormi flussi verso le città. Le ipotesi di lavoro indagate con modelli (una costante di questa biennale) mostrano l’ipotesi di una città efficiente e con un alto tenore di vita attraverso un nuovo modello denso e non intensivo.
La Cina è un laboratorio aperto, ancora in tempo per definire attraverso l’architettura una strada umana verso la sua piena modernità.