Domus: Una mostra come questa spezza la gerarchia tra opere costruite e non costruite: entrambe sono esposte con la stessa importanza. È possibile rompere questa gerarchia nella tua attività di oggi?
Moshe Safdie: Si può fare reale esperienza solo di un progetto costruito: sono gli unici cui valga la pena di guardare come ambienti, perché sappiamo che cosa sono nella realtà. Tu e io stiamo seduti qui allo Skirball e quindi sappiamo che cosa significa stare qui. Forse non sarebbe così se osservassimo solo un modello mai realizzato.
Ma recentemente mi hanno detto: “Ci sono progetti simbolici e progetti fondamentali”. Mi piace. Simbolico è una cosa, ma un progetto fondamentale segna la differenza in termini di evoluzione. Ci sono molti progetti non costruiti che sono fondamentali. Per me, personalmente, tra questi c’è il mio progetto per Centre Pompidou, che fu un momento critico, come idea. Ho perso il concorso per la Corte Suprema d’Israele, ma per me resta un progetto molto importante. E uno degli ultimi progetti esposti in questa mostra [dello Skirball] è quello del Museo nazionale della Cina.
Ci ho lavorato per un anno intero. E alla fine ho perso. Lo costruirà Jean Nouvel. Credo che Gehry e Zaha Hadid siano rimasti delusi quanto me di non ottenere l’incarico. Ma è stata un’esperienza straordinaria. In questo senso qualche volta un’opera non costruita ha comunque un peso enorme agli occhi di un architetto. Anche se un progetto non viene realizzato ciò non significa che le relative idee debbano restare non costruite per sempre.
Domus: Il culmine conclusivo della mostra è un’opera non costruita: stai ripensando un Habitat dei giorni nostri…
Moshe Safdie: È proprio quello che volevo dire: le idee ‘non realizzate’ si infiltrano nell’opera reale. In Asia stiamo costruendo due progetti molto influenzati dalle idee ‘non costruite’. So che ci sono molti architetti la cui opera è in gran parte teorica, e tale semplicemente rimane. Ma nel mio caso penso di costruire parecchio, perfino troppo [ride]. Però allo stesso tempo non costruisco tutto. Ho anche un importante catalogo non costruito.
Domus: In altre interviste hai sottolineato la necessità della “razionalità” in architettura, di dover reagire ai vincoli del progetto. Ma una mostra come questa permette di leggere l’architettura come arte, suscitando una riposta emotiva. Dipende dal contesto di un dialogo che avviene in un museo oppure dalle stesse opere esposte?
Moshe Safdie: No, credo che l’emozione stia dentro le opere. Affermare che credo nella razionalità del processo progettuale e del fatto che gli architetti hanno la responsabilità di molte questioni non significa che emozione e sentimento non siano parte importante dell’architettura. Quando si progetta lo Yad Vashem come si possono evitare i sentimenti? Quando si progetta una moschea come si può fare a meno del sentimento religioso?
Semplicemente non ritengo che razionalità ed emotività siano in contraddizione. Purtroppo quando si usa una parola come ‘funzionale’ ti rispondono “Eh no, hai ridotto tutto quanto alla logica”. Non è vero. Quel che voglio dire è che non si può avere un’architettura che sia tutta emozione, e non rispondere ai problemi che stanno alla radice del suo scopo. Ma senza emozione il risultato è molto freddo e insoddisfacente. Il posto in cui siamo seduti ora – lo Skirball – secondo me risponde allo scopo delle sue funzioni e delle sue attività. Come edificio funziona bene: le persone ci entrano e trovano la loro strada. Contemporaneamente è un luogo molto romantico, emotivo. Le persone reagiscono emotivamente all’edificio.
Domus: Dato che usi la parola ‘romantico’ non credo che ‘dramma’ sia una brutta parola, in architettura.
Moshe Safdie: Nemmeno io. Di fatto lavoro molto sul dramma, credo che in certi casi gli edifici debbano avere un carattere narrativo: mi piace permettere che raccontino la loro storia.
Domus: Nel tuo lavoro si snodano racconti coerenti?
Moshe Safdie: La coerenza sta nella presenza di certi temi: il tema della luce, dell’aria, della natura e dell’integrazione con il paesaggio. Sono sempre consapevole di dover affrontare la scala a dimensione umana, senza esagerare.
Contemporaneamente l’opera si evolve, come credo faccia per molti architetti. Per esempio si vede una straordinaria evoluzione in Wright, dalla Prairie House alle costruzioni giapponesi, al Guggenheim, alla sede della Johnson Wax. Credo che gli architetti inizino a preoccuparsi di nuovi problemi e che nuove soluzioni si sviluppino da queste preoccupazioni. Quando comincio ad affrontare questioni nuove, sono queste che danno forma al lavoro.
Domus: Che tipo di questioni?
Moshe Safdie: Lavorare in Asia significa lavorare a una scala e con una densità che ha per risultato un tipo di città a destinazione mista che prima nemmeno esisteva. Non esisteva nelle mie opere e forse non esisteva del tutto. Credo che vent’anni fa non avrei potuto concepire il progetto di Marina Bay Sands a Singapore, prima di visitare l’Asia, Singapore, la Cina e Hong Kong, e di conoscere quel modo di vivere.
Domus: Non posso evitare di citare il titolo della mostra: Global Citizen, “Cittadino del mondo”…
Moshe Safdie: Ovviamente è del curatore, Donald Albrecht. Ma non intende “mondo” solo in termini geografici. Quando me lo chiedono penso a ciò che rende il mio lavoro così organico a un luogo. Prima di tutto ho le orecchie sempre aperte. Sono decisamente curioso del luogo. Quando arrivo da qualche parte, in India o in qualunque altro paese, ci arrivo con una certa qual umiltà. Considerazioni personali a parte, credo di poterlo affermare.
Ma soprattutto credo che un architetto debba essere un po’ camaleontico. Che cosa fa un camaleonte? Interpreta l’ambiente e cambia colore. Credo che, come architetti, dobbiamo interpretare l’ambiente e permettergli di influenzare la nostra architettura. È un processo camaleontico.
Alcuni sono molto critici nei confronti di questa idea. So che Bruno Zevi, straordinario come architetto e come critico, che ho conosciuto molti anni fa, criticava molto il mio lavoro di Gerusalemme. “Habitat”, diceva, “non è romantico, le tue opere di Gerusalemme sono romantiche, ti sei smarrito, hai rinunciato.” Era molto critico. Penso che avesse torto, ma non condivideva il mio desiderio di creare un’architettura che appartenesse a un luogo.
Domus: Facciamo un po’ di psicoanalisi? La tua definizione dell’architetto-camaleonte si basa sulla tua esperienza personale, in cui ti sei mosso e ti sei regolato secondo il nuovo paese in cui ti trovavi?
Moshe Safdie: Certamente porto il segno delle mie prime esperienze di vita, essendo cresciuto in Israele (che è un ambiente culturalmente e politicamente molto particolare) e poi essendo stato sradicato da adolescente e trasferito con la famiglia nell’America settentrionale. Ciò ha avuto una parte importante nella mia consapevolezza della differenza tra un luogo e l’altro. Quando sono arrivato a Montréal sono rimasto sconvolto. Era un posto così diverso da quello in cui ero cresciuto. Poi naturalmente ho iniziato ad andare molto in giro. Certo credo che, se si è un architetto che ha passato tutta la vita nell’Ohio senza mai viaggiare, è una cosa che si può sviluppare più tardi, ma io ce l’avevo dentro fin dall’inizio.
Domus: A che cosa ti riferisci, di preciso?
Moshe Safdie: A quella certa curiosità di cui parlavo. Quando ti trasferisci la reazione è la curiosità, vuoi assorbire il luogo. Un’altra reazione consiste nel dire: “Non è una cosa mia, non voglio averci a che fare”. Io ho una predisposizione a esplorare il luogo. Sono affamato di luoghi differenti, e di comprenderli.
Domus: Pensi che sia possibile guardare un’opera architettonica e considerarla completa? O credi sempre nella possibilità di un cambiamento: di senso, di estetica?
Moshe Safdie: Credo che gli edifici assumano vita propria, secondo come vengono usati e secondo il rapporto che le persone hanno con essi. Cambiano. Guarda Habitat: cambia anche il significato. Da un lato si è imborghesito più di quanto non avessi mai pensato. Ma di recente ho trovato degli articoli su Habitat che parlano delle sue qualità formali simboliche, non delle cose di cui parlavo io cinquant’anni fa. L’attenzione va di volta in volta a cose differenti. Gli edifici si trasformano secondo il modo in cui vengono usati, ne sono certo.
Domus: Sei d’accordo con i critici che dicono che c’è una differenza generazionale nell’architettura di oggi, e che gli studi giovani che sono più politici dei loro predecessori?
Moshe Safdie: Direi che la mia generazione era per definizione più politica di tutto quel che si vede oggi. Gli architetti oggi fanno politica nel senso dell’ecologia, del pianeta verde, del lato ambientalista dell’architettura. Ma in termini di politica economica, di politica sociale? Non ne vedo a sufficienza. Credo, quanto a me, di essere troppo politico nella mia prospettiva. Ma non sono il solo. Penso alla mia generazione (voglio dire agli architetti che hanno iniziato a lavorare negli anni Sessanta e Settanta) come a qualcosa di profondamente politico. Penso che il Movimento Moderno fosse politico.
D’altra parte, quando vado nelle università e parlo con gli studenti, oppure quando lavoro con i giovani del mio studio, non li percepisco come appartenenti a una generazione diversa dalla mia. La principale differenza tra noi sta negli strumenti che usiamo. Io ancora rifletto e disegno. Dipendo dal computer ma non lo uso. Loro pensano con il computer, non con la matita. E c’è una grande differenza nel modo di lavorare. Vorrei che gli studenti disegnassero di più, anche se hanno il computer.
Domus: Ne risulterebbe un’architettura diversa?
Moshe Safdie: Quando si disegna con la matita e i colori si crea qualcosa di malleabile. Lavoro molto al carboncino, l’ho imparato da Louis Kahn. Con il carboncino puoi disegnare, cancellare, ridisegnare, cancellare. È assolutamente adattabile. Il computer è rigidissimo. Puoi fare dei calcoli parametrici e cominciare a trarne forme molto strane. Ma per l’urbanistica e per l’organizzazione di un edificio è proprio molto rigido. Il che influisce sulla qualità del lavoro. Oggi la tendenza è pensare delle cose e passarle al cantiere. Non è il mio modo di lavorare.
Domus: Il che allude ai due stereotipi differenti dell’architetto: quello che sta in un palazzo e guarda giù e quello con l’elmetto.
Moshe Safdie: Credo che l’architetto con l’elmetto sia un progettista costruttore. Lavora fianco a fianco con gli operai specializzati e con il capomastro, E poi c’è l’architetto che è come un compositore, che crea una composizione e poi i direttori d’orchestra e i musicisti la eseguono. Ne risultano architetture differenti. L’architettura concepita in questo modo non è fisica. Non è normalmente integrata nel processo costruttivo. Tende a essere più astratta e spettacolare perché non è integrata nei processi.
Domus: Considerando la mole della tua opera, che cosa pensi del fatto che la mostra inizi e finisca con Habitat?
Moshe Safdie: Quando mi trovo ad Habitat mi pare che l’abbia progettato qualcun altro. È come la storia. Ci vivono dentro. Ha cinquant’anni. Ci giro dentro e mi dico: non c’è male per una signora cinquantenne. Ma ci sono ancora elementi di Habitat in tutto quel che faccio oggi. Anche l’Habitat del Futuro si basa su quello originale per farlo progredire.
Di solito mi seccavo molto quando mi descrivevano come “celebre soprattutto per Habitat”. Adesso non succede più: in Asia sono celebre soprattutto per Marina Bay; in Israele sono celebre soprattutto per lo Yad Vashem. Ma per molti anni sono stato davvero noto soprattutto per Habitat e, anche se mi faceva arrabbiare, non credo che nell’arco di una vita si abbia l’occasione di compiere salti così radicali più di una volta. Ho avuto un’occasione straordinaria e mi è capitata presto nella vita. Sono cose che non si ripetono facilmente.
Fino al 3 marzo 2014
Global Citizen: The Architecture of Moshe Safdie
Skirball Cultural Centre
2701 N. Sepulveda Blvd., Los Angeles