A Venezia, il Moderno arriva sempre di soppiatto. Affiora negli interni (Aldo Rossi nel Teatro La Fenice; Tadao Ando alla Punta della Dogana; Renzo Piano alla Fondazione Vedova; Michele De Lucchi nella Manica Lunga della Fondazione Cini). Fiorisce nelle periferie della laguna (David Chipperfield con il cimitero dell'isola di San Michele; Cappai e Segantini, C+S Architects, con il depuratore dell'acqua e le infrastrutture che facilitano la visita dell'isola di Sant'Erasmo). Spunta inaspettato ai margini d'accesso della città (Santiago Calatrava con il suo ponte alla stazione della ferrovia). O s'insinua di nascosto (come il nuovo Tribunale di piazzale Roma) nelle articolazioni di un'ossatura che rassomiglia a un corpo steso a terra, più che avvicinarsi all'immagine canonica di un parco a tema che mette in scena l'antico'.
Una modernità porosa e selettiva, dunque, che rifiuta i gesti dimostrativi (di Palladio come di Le Corbusier), ma che si apre alla trasformazione puntiforme: accetta l'agopuntura e rifiuta la mano del chirurgo che potrebbe stirarne dal volto i segni del tempo. Per una tradizione praticata, ma non scritta, preferisce adattarsi a un'apparente permanenza, sfidando le capacità del progetto di leggerne le profondità, di scandagliarne gli spessori e, soprattutto, di percepirne i 'vuoti' non come sacche da riempire, ma come intermezzi deliberati di un labirinto urbano che si estende all'intero paesaggio lagunare. Come una scrittura, insomma, che con le punteggiature e i punti di sospensione costruisce una trama elastica e flessibile, riluttante a essere ridotta alla linearità di un racconto di maniera: neppure a quello, quindi, del mito di città antimoderna per definizione.
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Venezia pone una sfida all'architettura, chiedendole di farsi misura, più che gesto: di esercitare, cioè, la sua perizia nell'arte di prendere le distanze, d'individuare i limiti, di stabilire altezze e configurare spessori.
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