Siamo ancora capaci di pura visione, liberi da categorie filosofiche (come la triade pittoresco-sublime-bello) e da immagini di consumo che ci rendono familiari luoghi lontani? Una condizione che sembra indispensabile, leggendo Scenes in America Deserta, è quella della totale estraneità della cultura di formazione dell'osservatore (nel suo caso la cultura protestante anglosassone e, più in generale, la filosofia occidentale) rispetto a quella che permea i luoghi attraversati (le tradizioni dei nativi americani). Immagini patinate per riviste, film western, volantini pubblicitari, progetti manifesto di architetti d'indole messianica, diventano un'ossessione da cui liberarsi e finiscono puntualmente per "sabotarlo" nel suo intento.
A trent'anni dalla pubblicazione di Scenes in America Deserta, ha ancora senso tentare di raccontare un'esperienza che parta dai medesimi presupposti?