Sir David Chipperfield è un gentiluomo inglese, un intellettuale e un architetto di fama internazionale che vive a Londra e lavora in tutto il mondo. Alla sua personalità anglosassone si mescolano un sentimento germanico per l’ordine geometrico, un esuberante spirito mediterraneo, un gusto per la musica spagnola e un senso dell’umorismo italiano. Ottimi punti di partenza per un’intervista.
Come guest editor per il 2020, cosa significa per te Domus?
Come giovane architetto In Inghilterra negli anni Settanta, e soprattutto negli ani Ottanta, Domus era una finestra aperta su un mondo molto vasto. Allora a Londra avvertivamo una sensazione di isolamento – cosa che potremmo tornare a provare dopo la Brexit.
La rivista aveva una grande autorità, la leggevamo per sapere cosa stava succedendo in architettura. Nonostante tutto, grazie a Domus e Casabella l’Italia mostra ancora rispetto per la cultura architettonica. Anche se non è il luogo ideale per fare architettura, è la patria della cultura architettonica.
In che modo credi che la visione e l’autorevolezza espresse da Domus tra gli anni Settanta e Novanta si adattino ai tempi attuali, dove studi come il tuo possono comunicare perfettamente il loro lavoro in maniera autonoma?
È difficile sapere se certe cose nel nostro atteggiamento stiano cambiando perché il mondo è diverso o perché siamo cambiati noi. Direi che il paesaggio è mutato. Negli anni Ottanta non c’erano molti strumenti per tenersi aggiornati: riviste come Domus erano un’opportunità. Ora direi che quelle opportunità sono ovunque. Penso che in quegli anni anche la professione fosse diversa: lo scenario non era così denso di avvenimenti, tuttavia le cose erano in qualche modo più significative. Non so perché.
La cosa interessante di Domus a quel tempo era che tendeva ad avere una forte opinione editoriale. Era una voce critica. Sotto la direzione di Mario Bellini, e in particolare di Vittorio Magnago Lampugnani, aveva un certo peso. Vedere il tuo lavoro pubblicato su Domus era un premio, un riconoscimento. Era come entrare a far parte di un club che legittimava il tuo valore. Il vero potere di Domus era legato alla nostra aspirazione come architetti. Da un punto di vista inglese, ci ha aperto un accesso a cose che non rientravano nella nostra prospettiva. Negli anni Ottanta, non c’era un grande collegamento culturale tra la comunità architettonica britannica e quella europea o globale. Oggi invece il rapporto è strettissimo.
Hai avuto una carriera straordinaria. Sei molto british ma lavori parecchio anche in Germania e sei coinvolto politicamente in Spagna, dove partecipi al movimento della società civile. È una novità nella pratica dell’architettura o è sempre successo?
È difficile stabilire se si tratti di questioni genetiche, professionali o legate alle circostanze. Penso che abbia un peso essere diventato architetto all’inizio degli anni Ottanta. Allora avevamo la sensazione che non ci fossero molte opportunità in Inghilterra, così ho abbracciato la strategia di cercare lavoro in un modo molto più flessibile di quanto avrebbero fatto i miei insegnanti, architetti vecchio stile convinti che si dovessero progettare abitazioni, università e città. A loro, progettare un negozio sarebbe sembrato poco interessante. Noi eravamo molto più flessibili, meno disposti a rimanere in attesa di opportunità. All’inizio, il caso mi ha portato in Giappone perché ho progettato una boutique per Issey Miyake. Lì ho realizzato i primi edifici. Suppongo che se costruisci al di fuori della tua cultura, specialmente da giovane, ti senti in dovere di spiegare il motivo per cui ti trovi a operare nell’ambito di una cultura che non è la tua. Come posso giustificare questa responsabilità, questo privilegio? È sempre stata la mia situazione, sia che lavorassi in Germania sia in Italia. Costruire all’estero non è un diritto.
È strano, perché se sei un medico o un ingegnere probabilmente non ti poni il problema. Ma come architetti a livello sociale siamo cresciuti con una posizione ambigua. Sappiamo di avere diritti professionali, ma non siamo così sicuri dei nostri diritti sul piano sociale, perché la società tende a darceli e a toglierceli.
Suppongo che se costruisci al di fuori della tua cultura, specialmente da giovane, ti senti in dovere di spiegare il motivo per cui ti trovi a operare nell’ambito di una cultura che non è la tua. Come posso giustificare questa responsabilità, questo privilegio? È sempre stata la mia situazione, sia che lavorassi in Germania sia in Italia. Costruire all’estero non è un diritto
Questo vale anche per le priorità, che sono cambiate da quando sei diventato architetto alla fine degli anni Ottanta? Cosa pensi di questo nuovo ecosistema in cui gli architetti hanno un ruolo diverso, non solo nel costruire, ma per la loro responsabilità nei confronti della società?
Mi rattrista vedere che alla professione non siano affidate maggiori responsabilità. Abbiamo dei limiti in termini di possibilità di lavoro, e una delle nostre capacità è essere opportunisti, qualità in dote a tutti gli architetti di successo.
Dobbiamo escogitare dei modi per lavorare. Fin dall’inizio, ogni studio inventa la propria identità, strategia e metodo professionale. Quindi uno dei tuoi talenti come architetto è lavorare in un sistema che non ti è necessariamente favorevole. Devi essere sovversivo e strategico. Suppongo che sia legato alla mia biografia, cioè essere cresciuto nella società della Thatcher e del Principe Carlo, in cui socialmente non avevamo una posizione, in cui culturalmente gli architetti erano visti in modo negativo. Perciò era necessario costruire dei ponti per rompere questo isolamento. Forse ero consapevole che la capacità di comunicare attraverso il lavoro era un modo per renderlo significativo.
Il primo edificio che ho realizzato per il Rowing Museum ha chiarito che se non avessi pensato a quel ponte il progetto non sarebbe stato realizzato.
Se solo avessi fatto un progetto modernista molto radicale, per il quale i miei contemporanei si sarebbero congratulati con me, non sarebbe mai stato costruito. Pertanto, bisogna chiedersi perché la gente in Inghilterra odi l’architettura moderna. In parte a ragione, perché non è stata costruita molto bene. E non manifestava alcun gesto rivolto alla gente. Ho avvertito che quel primo progetto doveva comunicare, quindi ho usato un tetto a spioventi, che ora non sembra nulla di strano ma nel 1986 o 1987 era un elemento piuttosto insolito per un architetto moderno.
Non ci era permesso fare cose del genere. Ma sentivo che se non avessi usato un tetto a spioventi, la comunità non avrebbe mai accettato il museo. Quindi mi sono chiesto se potevo fare un gesto verso la comunità, adottare un atteggiamento più popolare ed essere allo stesso tempo rispettoso dei miei principi. Perché no? È stato molto interessante, e l’edificio è stato accolto molto bene.
Quali sono per te le tre grandi sfide del nostro tempo?
Disuguaglianza sociale, sostenibilità ambientale e, collegato alle prime, il problema della comunità, il fatto che abbiamo eroso l’importanza fondamentale della comunità.
Hai intenzione di esplorare queste tre sfide per mezzo di Domus?
Oggi è impossibile parlare di architettura senza toccare questi temi. Certo, mi piacerebbe essere stato direttore di Domus 15 anni fa, quando potevamo essere più ingenui riguardo a questi problemi, ma se ora ci troviamo in una situazione in cui il 50% della popolazione mondiale vive in città e il 50% di quella popolazione vive in sistemazioni temporanee, le nostre confortevoli discussioni di allora sull’urbanistica suonerebbero piuttosto fuori luogo. Negli anni Ottanta, durante le nostre conversazioni sull’urbanistica parlavamo di edilizia popolare come concetto inclusivo.
Credevamo che tutti avrebbero avuto un posto permanente nella città così come la concepivamo. Non immaginavamo che il 50% non sarebbe nemmeno stato considerato. Quindi ci siamo via via allontanati dal punto in cui ancora godevo di questa mentalità modernista leggermente utopica, in base alla quale architetti e urbanisti avrebbero salvato il mondo e avrebbero costruito nuove comunità, nuove società. Negli ultimi quarant’anni, per certi versi, siamo diventati vittime della situazione. Stiamo cercando di sfruttare al meglio le circostanze, il che è molto diverso dalla posizione degli architetti negli anni Sessanta e Settanta. Ora, se non possiamo immaginare di risolvere questi problemi, non possiamo almeno provarci? Perché nessun altro li risolverà. In questo Paese oggi ci sono quattro milioni di bambini poveri. Stiamo parlando dell’Inghilterra, non del Bangladesh. Mi dispiace, ma questo dato statistico dovrebbe essere la prima notizia di ogni telegiornale.
Hai ragione. A Milano 4.000 bambini non fanno pasti regolari.
Come architetto, è un mio problema? No, ma ci rendiamo conto che questi problemi stanno crescendo. Lo stesso vale per l’ambiente: se la nostra professione – l’ambiente costruito – risponde per quasi il 40% dell’emissione di CO2, come possiamo dire di non essere coinvolti? Al momento la nostra difesa è che siamo al termine della filiera.
Alla fine, siamo quelli che cercano di fare qualcosa. Se progettiamo un edificio, possiamo migliorare termicamente le finestre? Possiamo installare dei pannelli solari sul tetto? Possiamo migliorarne la qualità e ridurre i problemi? Non siamo all’inizio della catena alimentare, non possiamo decidere di non costruire in un certo luogo. Possiamo dire che non è nostro compito, ma rimane il fatto che nessun altro sta intervenendo. Abbiamo perso questa tendenza a far parte di una forma di collaborazione e di pianificazione più ampia, e dobbiamo tornare a essere coinvolti. Fino a che punto? Non lo so, ma dovremmo fare più di quello che facciamo. Dovremmo pensare molto di più all’edilizia popolare, all’ambiente, alla comunità. Anche solo dieci anni fa potevamo ignorare questi problemi. Ci si poteva concentrare sulla propria narrazione. Ma ora non si possono più usare parole semplici.