Del lavoro di Durham si è scritto tanto, e lui stesso ne ha scritto a più riprese, per questo abbiamo chiacchierato con lui di altro, usando parole che contribuiscono a delineare la sua visione del mondo.
Simona Bordone: Se dico identità?
Jimmie Durham: Credo sia una parola disonesta, ne ho scritto più volte. Non credo che esistano i bianchi, anche se alcuni credono di esserlo. Ma credo anche che molti bianchi non pensino di esserlo!
Questa dell’identità e delle politiche connesse è un’invenzione dei bianchi. Negli anni ’80 Maria Thereza (Alvez, sua moglie e artista lei stessa n.d.r.) ed io vivevamo a New York in una piccola comunità di artisti, composta da persone di vario tipo, afroamericani, sino-americani e cherokee, e non facevamo altro che fare la migliore arte di cui eravamo capaci e provare a mostrarla al pubblico, perché questo è quello che un artista desidera fare, ma all’epoca le gallerie commerciali volevano soprattutto artisti bianchi “coi coglioni”. Così ci siamo messi a fare mostre in qualsiasi posto riuscissimo a trovare, a cura di Juan Sanchez e altri. Noi non abbiamo mai pensato alla nostra identità e nemmeno ne abbiamo parlato.
Ma qualche anno dopo, nei ’90 più o meno, alcuni critici hanno cominciato a dire che noi ci stavamo confrontando con la nostra identità. Ma quando si parla di mettere la propria identità in un’opera d’arte gli europei sono i più assurdi fra tutti. Pensiamo a tutti quei Gesù Cristi biondi, questa è politica dell’identità.
Sono cresciuto con la mia gente e con i neri nel Sud (degli USA) al tempo della segregazione. Nei primi anni ’60 ho lavorato a Houston con una bravissima teatrante nera, che faceva teatro resistente, e quello per cui ci battevamo era il diritto di andare in qualunque scuola, sederci sugli autobus, o di entrare in una drogheria, in un ospedale. Ci stavamo battendo per la libertà e l’uguaglianza non per la nostra identità.
Addio Jimmie Durham, il Leone
Ricordiamo il grande artista americano recentemente scomparso con un'intervista pubblicata in occasione della Biennale di Venezia 2019, quando vinse il Leone d’oro alla carriera.
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- Simona Bordone
- 19 novembre 2021
- Venezia
Foto Giulia Di Lenarda
Foto Giulia Di Lenarda
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Foto Giulia Di Lenarda
Foto Giulia Di Lenarda
Foto Giulia Di Lenarda
Foto Giulia Di Lenarda
Foto Giulia Di Lenarda
Foto Giulia Di Lenarda
Foto Giulia Di Lenarda
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Perciò non useresti la parola identità?
No, penso che sia un tranello. E credo che sia una trappola per le persone che ancora si stanno battendo per quelli che sono semplicemente diritti umani. Ecco chiamiamoli diritti umani invece che identità, mi suona più giusto.
Una seconda parola: animale. Cosa significa per te?
Significa noi. Sto per scrivere un lungo saggio sulla scienza, che ho sempre amato. Mi piacerebbe che la scienza fosse meno arrogante. Noi siamo dei primati e tutto ciò che facciamo lo facciamo da primati, pensiamo con i nostri cervelli, corpi e mani da primati. Spesso diciamo quanto siamo intelligenti, e gli scienziati dicono gli animali, non gli altri animali. Ma siamo intelligenti al nostro modo non a quello dei cavalli. Se prendessimo un umano molto intelligente e un cavallo mediamente intelligente e gli facessimo fare un test da cavallo, il cavallo risulterà più bravo!
Hai mai avuto un animale domestico?
Per tutta la vita ho avuto degli amici animali, mai un animale domestico.
La parola identità penso che sia un tranello. E credo che sia una trappola per le persone che ancora si stanno battendo per quelli che sono semplicemente diritti umani
Cosa intendi per amico animale?
Nei nostri primi anni a New York non avevamo molti soldi e non potevamo permetterci di stare a Manhattan perciò siamo andati oltre il fiume Hudson, in New Jersey, dove abbiamo preso una piccola casa al piano rialzato. Volevo fare un regalo a mia moglie, così sono andato in un gattile, dove ho visto un gattino che cercava di scappare, mi sono detto: è lui. È diventato il nostro amico, il mio miglior amico.
Migliore di Maria Thereza, perché lei è della mia stessa specie e noi sappiamo già molto l’uno dell’altro. Ma il gatto era sempre a disagio nel toccare la nostra pelle perché non abbiamo la pelliccia. Tutte le mattine voleva svegliarmi con un ‘bacio’ ma non riusciva a toccarmi, così tutte le mattine c’era uno strano rituale fra noi. Ma ci amava davvero e ci trattava come i suoi folli amici giganteschi e cercava di imitarci e di mangiare con le ‘mani’ come noi e di fare pipì in piedi come me.
La gente tiene i cani come animali domestici e questo mi fa male. So che chi ha un cane lo ama e ne è riamato. Il cane, che è un animale che vive in branco, sente l’uomo come parte del suo branco però viene trattato dall’uomo come un inferiore. Un uomo che va a caccia, cioè va al supermercato, dice al cane, mentre lo lega fuori, sei parte del branco ma non abbastanza buono per venire a caccia con me. E questa è una cosa orribile da dire a un membro del tuo branco, a un amico.
Bisognerebbe dare al cane un ruolo che lo faccia sentire partecipe del branco: come fare la guardia a un oggetto o portare qualcosa. Coi gatti è diverso perché non vivono in branco.
Ma io odio gli animali e anche gli umani, ma odio di più gatti e cani e cavalli perché li ami e ti spezzano il cuore: ti lasciano, se ne vanno, vengono uccisi o muoiono.
Gli animali delle tue opere sono metaforici?
Direi di no. È un progetto che avevo in mente da quando ci siamo trasferiti in Europa, dove mi sembra che non ci sia interesse se non per gli animali domestici o di allevamento da uccidere per mangiarli, che mi sembra una cosa piuttosto strana, ma i grandi animali europei sono magnifici. Mi sono detto che prima di morire volevo fare un lavoro con i teschi dei grandi animali e farne delle sculture. Così quando l’anno scorso ho avuto la possibilità di una mostra a Zurigo, e siccome non so quando morirò, ho pensato fosse meglio farlo!
Faccio fatica a pensare che sia un lavoro d’arte, è piuttosto un modo di cercare di entrare in contatto con questi animali e provare a mostrare qualcosa dello spirito individuale di ciascun animale, non voglio mostrare lo spirito degli orsi bruni ma di questo singolo orso di cui ho il teschio, una parte dell’animale vero che è morto. Vita e morte non sono così definite come tendiamo a pensare.
In che senso?
Lavoro con il teschio di ogni singolo animale per mettermi in contatto con il suo spirito, capisco che può sembrare strano ma è così che lavoro adesso.
Ma in quanto sculture sono fatti di molti pezzi del nostro mondo.
Sono oggetti comuni. Il teschio mi comunica la sua energia, ma se volessi ricreare il corpo dell’animale a partire dal teschio farei un’operazione stupida, arrogante, così ho deciso di dare loro un corpo del nostro mondo, di portare il loro spirito nel nostro mondo. Mmm, mi dispiace di continuare a usare la parola spirito, perché sembra una di quelle cose da Indiani di Hollywood… Non intendo in quel senso! Chiacchierando con Elisa Strinna, un’artista italiana che è stata mia studentessa, non molto tempo fa le ho chiesto: “Cosa pensi sia la vita” e lei mi ha risposto “Qualsiasi cosa sia intelligente, come i sassi che hanno la propria ‘sassità’, qualunque cosa conservi la sua integrità è intelligente.”
Interessante, ma questa logica porterebbe a dire che un robot ha la sua ‘robotità’. Cosa ne pensi?
C’è qualcosa dello spirito che sappiamo e qualcosa che non sappiamo. C’è uno spirito afro-cubano, Wawa Nko che è un suono. Se si percuote un tamburo in un certo modo e in un certo punto si genera un suono che è Wawa Nko. Dunque l’azione del percuotere, la percussione e il suono significano lo spirito, lo spirito è sempre lì ma esiste quando un essere umano produce il suono. Mi piace questa complessità.
Certo ma anche se stai parlando di spirito, il tuo lavoro sembra razionale, molto nord-americano.
Vero, ma ciascuno di noi è anche il prodotto di ciò che gli è accaduto, di dove ha vissuto. Non userei il temine radici, non sono una pianta, ma sono il prodotto del mondo di cui faccio parte. Non vedo differenza tra razionale, nel mio lavoro, e altre parti. Ho sempre desiderato che il mio lavoro fosse fortemente intellettuale ma non vedo differenza con quello che non è intellettuale, qualunque cosa voglia dire.
Hai ricevuto molti premi nella tua vita.
Veramente solo negli ultimi anni. Nella mia vita vera sono un poeta. E molto prima che cominciassi a fare arte, nel 1985 sono stato premiato per il mio libro Columbus Day (1985, West End Press, Albuquerque) dalla American Poetry Society con 5.000 dollari, ed eravamo così poveri che era davvero molto denaro. Quello è per me il premio più importante. Intanto perché sono stato riconosciuto come poeta e poi per il denaro, che ci ha permesso di stare tranquilli.
Pubblicherai un altro libro?
Sto lavorando al terzo libro di poesie. Continuo a prendere la poesia come una cosa seria ma non penso di pubblicare con una delle grandi case editrici di genere e non ho mai voluto insegnare né diventare un poeta di professione.
Alla fine sei tu il leone, quest’anno.
Strano, vero?
Immagine di apertura: una delle sculture esposte all’Arsenale di Venezia in occasione della Biennale d’Arte. Foto Giulia Di Lenarda
Immagine di anteprima: ritratto di Jimmie Durham del fotografo Lukas Wassmann nel laboratorio di Labinac a Berlino, apparso nell'articolo "Oggetti diversi. L'umiltate di Jimmie Durham e delle sue creature" pubblicato su Domus 1030, dicembre 2018.
- Jimmie Durham
- 58. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia