In concomitanza con la 17. Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, i Giardini della Marinaressa ospitano Striatus Bridge, prototipo di ponte pedonale in calcestruzzo stampato in 3D. Il team dei suoi autori è decisamente affollato e variegato, come ci si aspetta per un’architettura in cui la componente tecnologica gioca un ruolo di primo piano. Il progetto strutturale e costruttivo di Striatus Bridge riflette il know how del Block Research Group ETH di Zurigo, co-diretto da Philippe Block, ed è stato tradotto nella sua espressione parametrica e di stampa robotica tridimensionale da CODE, il Computational Design Group di Zaha Hadid Architects, rappresentato qui da Shajay Bhooshan. La start up austriaca incremental3D, infine, lo stampa con il calcestruzzo fornito da Holcim, promotore e regista dell’operazione. L’apertura al pubblico del ponte, che per ora esiste in scala 1:1 e percorribile, ma esposto sulla terraferma, è l’occasione per conoscere Bhooshan. Tra i fondatori di CODE, è una figura tipica del mondo dell’architettura contemporanea per la moltiplicazione delle sue attività e la multidisciplinarità delle sue competenze. Parte di Zaha Hadid Architects dal 2007, è anche una fonte preziosa d’informazioni sullo stato attuale dello studio britannico.
ll primo ponte in calcestruzzo stampato in 3D di Zaha Hadid Architects
Il ponte, progettato in collaborazione con il Block Research Group dell’ETH, è aperto al pubblico ai Giardini della Marinaressa di Venezia nei mesi della 17. Biennale di Architettura. Ne parla Shajay Bhooshan di Zaha Hadid Architects.
Block Research Group, Zaha Hadid Architects, Striatus Bridge, Venezia, 2021. Foto © Chiara Becattini
Block Research Group, Zaha Hadid Architects, Striatus Bridge, Venezia, 2021. Foto © Chiara Becattini
Block Research Group, Zaha Hadid Architects, Striatus Bridge, Venezia, 2021. Foto © Chiara Becattini
Block Research Group, Zaha Hadid Architects, Striatus Bridge, Venezia, 2021. Foto © Chiara Becattini
Block Research Group, Zaha Hadid Architects, Striatus Bridge, Venezia, 2021. Foto © Chiara Becattini
Block Research Group, Zaha Hadid Architects, Striatus Bridge, Venezia, 2021. Foto © Chiara Becattini
Block Research Group, Zaha Hadid Architects, Striatus Bridge, Venezia, 2021. Foto © Chiara Becattini
Block Research Group, Zaha Hadid Architects, Striatus Bridge, Venezia, 2021. Foto © Chiara Becattini
Block Research Group, Zaha Hadid Architects, Striatus Bridge, Venezia, 2021. Foto © Chiara Becattini
Block Research Group, Zaha Hadid Architects, Striatus Bridge, Venezia, 2021. Foto © Chiara Becattini
Block Research Group, Zaha Hadid Architects, Striatus Bridge, Venezia, 2021. Foto © naaro
Block Research Group, Zaha Hadid Architects, Striatus Bridge, Venezia, 2021. Foto © naaro
Block Research Group, Zaha Hadid Architects, Striatus Bridge, Venezia, 2021. Foto © naaro
Block Research Group, Zaha Hadid Architects, Striatus Bridge, Venezia, 2021. Foto © naaro
Block Research Group, Zaha Hadid Architects, Striatus Bridge, Venezia, 2021. Foto © naaro
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- Alessandro Benetti
- 29 luglio 2021
- Venezia, Italia
- Block Research Group, Zaha Hadid Architects
- ponte pedonale
- 2021
Lavori in uno studio di architettura come esperto di computational design. Ci racconti le tappe fondamentali del tuo percorso di formazione e della tua carriera professionale?
Ho cominciato i miei studi di architettura in India, alla TVBSHS (TVB School of Habitat Studies) di New Delhi. All’inizio del millennio il percorso di formazione era ancora molto simile a quello tipico degli architetti indiani del Novecento. Si insisteva sulla fase modernista dell’architettura indiana, quella appena successiva all’indipendenza, influenzata dalle opere di Le Corbusier e di Louis Kahn. Era evidente, però, lo scollamento che esisteva tra questa narrazione, le tradizioni locali e le traiettorie reali seguite nei decenni successivi dallo sviluppo del paese. All’epoca, poi, frequentavo già molti cantieri, al seguito di mio padre che era architetto, e familiarizzavo con le questioni tecniche della costruzione.
Poi hai proseguito i tuoi studi a Londra dove hai conosciuto Patrik Schumacher.
Si, il mio master all’AADRL (Architectural Association Design research Laboratory) mi ha dato l’occasione di far interagire tre centri d’interesse: la tecnologia, in particolare le information technologies, la riflessione teorica sull’architettura e l’attenzione per le tradizioni costruttive locali. A Londra ho incontrato Schumacher, da cui ho imparato che non esistono temi che l’architettura non possa fare propri. Nel frattempo all’A.A. sviluppavo le mie competenze nelle computer graphics, oltre che più in generale nel campo della geometria. Sempre all’A.A. ho incontrato Philippe Block, che è ora il relatore della tesi di dottorato che sto svolgendo all’ETH di Zurigo. In questo momento ho la fortuna di lavorare contemporaneamente su almeno tre fronti: nel mondo professionale, da Zaha Hadid Architects, all’A.A. dove insegno e all’ETH dove preparo la mia tesi.
Sei uno dei fondatori di CODE. Com’è nata e come funziona questa branca di Zaha Hadid Architects?
Poco dopo la fine dei miei studi all’A.A. Schumacher mi ha proposto di unirmi a Zaha Hadid Architects per avviare un gruppo di ricerca. All’inizio si trattava soprattutto di riorganizzare gli archivi digitali dello studio, ma nel tempo CODE si è evoluto fino a diventare quello che è oggi. Ci concentriamo sul computational design, studiando tecnologie che sono almeno tre o quattro anni in anticipo rispetto a quelle utilizzate in questo momento nel mondo della costruzione e da Zaha Hadid Architects. Di fatto, il nostro compito è quello di stimolare un continuo rinnovamento delle soluzioni adottate dallo studio. Zaha Hadid era criticata spesso per la sua fossilizzazione su un unico stile, ma la realtà è che siamo in evoluzione perpetua. Siamo uno studio agile, aperto agli stimoli bottom-up delle nuove generazioni che si uniscono a noi. La mia generazione, quella di CODE, sta definendo un nuovo insieme di strumenti di rappresentazione e un nuovo network di consulenti e di fornitori, diverso e aggiornato rispetto a quello della generazione precedente, che per intenderci è quella che ha costruito il MAXXI. CODE è un gruppo molto piccolo in uno studio di più di 500 persone, ma vogliamo anche noi essere il “nuovo Bauhaus” e rifondare le regole del gioco.
Parlerei di Striatus Bridge proprio a partire dalla questione dello stile. Nella tua presentazione alla stampa hai sottolineato a più riprese che le forme sinuose non sono fini a sé stesse, ma sono necessarie per ottimizzare il processo di stampa e la resistenza strutturale. Ce ne parli?
Esattamente. Striatus Bridge non deriva dallo “schizzo sul tovagliolo” fatto da un architetto, che poi altri ingegneri e specialisti si sono occupati di far funzionare. Da Zaha Hadid Architects abbiamo recepito molto seriamente le critiche al linguaggio riconoscibile, al limite esuberante delle nostre architetture. È importante spiegare che non si tratta di forme gratuite, ma della trascrizione coerente del nostro approccio sperimentale nelle tre dimensioni della realtà costruita. Striatus Bridge è paradigmatico di come questo linguaggio architettonico si possa rivelare di fatto necessario sia in sede di produzione, perché la stampa 3D si presta meglio alla realizzazione di forme curve, sia sul piano strutturale, perché migliora la distribuzione dei carichi. Stiamo ricercando un linguaggio che sia comune all’architettura, all’ingegneria strutturale e al campo delle computer graphics, un linguaggio che possa enfatizzare le qualità di tutte le discipline che lavorano congiuntamente al progetto.
Insisti molto sulla multidisciplinarità come requisito fondamentale del progetto contemporaneo.
Si, e credo che l’esperienza di Striatus Bridge dimostri la validità di questo approccio. Si tratta di una vera e propria esperienza di integrated architecture, che ha coinvolto team di esperti di diversi ambiti e provenienti da varie parti del mondo. Malgrado le difficoltà aggiuntive determinate dalla pandemia, siamo riusciti a realizzare un progetto che io ritengo convincente perché affronta allo stesso tempo questioni di carattere stilistico, ambientale – perché le sue forme ottimizzate permettono di risparmiare materia prima, e sociale – perché i suoi tempi di realizzazione davvero ridotti rispondono al fabbisogno urgente di nuove costruzioni che caratterizza oggi alcune parti del mondo. Striatus Bridge è una sorta di “pacchetto olistico” che mostra a che livello di maturità e di complessità sono giunte oggi le riflessioni impostate da Hadid molti decenni fa, e proseguite dal suo studio e oggi anche da CODE.