Sono tanti i progetti della 17. Biennale Internazionale di Architettura che, guardando a un futuro post-antropocenico, cercano di considerare il reciproco e fragile rapporto tra specie diverse. Lo fanno prendendo in considerazioni modalità differenti: adattamento, convivenza, collaborazione, mimesi. Il messaggio, invece, è, di per sé, univoco: se vogliamo uscire dall’era dell’uomo, quella in cui noi umani abbiamo dominato, condizionato e pressoché distrutto l’ecosistema terrestre, se vogliamo puntare a una coesistenza tra specie pacifica e sinergica, è caldamente consigliato allargare gli orizzonti. Scorrendo i progetti esposti tra le spesse mura dell’Arsenale – nella mostra del curatore Hashim Sarkis e soprattutto nelle Stazioni sviluppate dai ricercatori delle università di tutto il mondo – ai Giardini, nel Padiglione Centrale e in alcuni padiglioni nazionali, è chiaro che in questo processo gli architetti potrebbero avere un ruolo tutt’altro che secondario.
In futuro l’architettura sarà multispecie?
Alla Biennale di Venezia più di un progetto riconsidera la convivenza di specie diverse. Così facendo, emerge un modo nuovo di affrontare e raccontare il progetto, all’insegna della collaborazione e della contaminazione disciplinare.
Among Diverse Beings (Arsenale). Foto Andrea Avezzù. Courtesy of Biennale di Venezia
Foto Riccardo de Vecchi
Among Diverse Beings (Arsenale). Foto Andrea Avezzù. Courtesy of La Biennale di Venezia
Among Diverse Beings (Arsenale). Foto Andrea Avezzù. Courtesy of La Biennale di Venezia
As Emerging Communities (Arsenale). Foto Andrea Avezzù. Courtesy of La Biennale di Venezia
As Emerging Communities (Arsenale). Foto Andrea Avuzzù. Courtesy of La Biennale di Venezia
Across Borders Padiglione Centrale (Giardini). Foto Francesco Galli. Courtesy of La Biennale di Venezia
Across Borders Padiglione Centrale (Giardini). Foto Francesco Galli. Courtesy of La Biennale di Venezia
Padiglione Centrale (Giardini). Foto Andrea Avezzù. Courtesy of La Biennale di Venezia
Giardini. Foto Giulia Di Lenarda
Giardini. Foto Francesco Galli. Courtesy of La Biennale di Venezia
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- Elena Sommariva
- 09 giugno 2021
- Venezia
- 17. Mostra Internazionale di Architettura
La collaborazione multidisciplinare appare sempre più ampia e sembra diventare un elemento quasi imprescindibile del gioco. Se nessuno si sorprende più che un progettista lavori al fianco di antropologi, etnologi, biologi, geografi e scienziati, questa biennale va però al di là del concetto di collaborazione tra ambiti diversi, ridefinendo il mestiere dell’architetto, che è diventato uno tra i molti partecipanti a una discussione più ampia, a un esperimento di collaborazione sempre più globale, continua e aperta, accelerata forse anche da questo anno di pandemia. E, se riuscisse a mettere a sistema la capacità di visione che da sempre lo contraddistingue, potrebbe essere proprio l'architetto a tenere le fila di questo nuovo modo di procedere, con l’apporto di molteplici esperti di altrettante materie.
Come scrive l’antropologa Anna Lowenthaup Tsing – autrice del classico dell’ecologia Il fungo alla fine del mondo – “collaborazione significa operarsi per superare le differenze, e questo comporta una contaminazione”. A Venezia, da questa collaborazione / contaminazione emergono forme originali di scrittura, di progetto, di analisi e di ricerca: le gabbie-voliere di Studio Ossidiana, l’atlante vegetale per raccontare la ricchezza culturale di un barrio a Caracas (Enlace Arquitectura), i funghi raccolti sulle pareti dell’Arsenale e studiati in laboratorio ad Atene (Thomas Dioxadis), le libellule-barometro del clima monsonico e del cambiamento climatico (Lindsay Bremner) sono alcuni esempi. Come “la necessaria diversità dinamica multispecie che sta alla base di una foresta” (sempre Tsing), nella Biennale emerge un racconto corale, fatto di voci diverse, ma sempre in dialogo tra loro, unite nell’affrontare problematiche attuali: sociali, urbane, spaziali e politiche. Alcune di queste provano a rispondere al “Come vivremo insieme?” lanciato da Hashim Sarkis: l’americano David Benjamin indaga materiali bioricettivi, mentre Studio Libertiny progetta strutture ispirate alle api. Il più delle volte, però, le ricerche e i progetti sollevano questioni ulteriori o intavolano un più articolato dibattito, come il padiglione israeliano, trasformato in freddo obitorio con gli animali estinti di quello che un tempo era un territorio dell’abbondanza, o l’ecologia di confine lungo la Striscia di Gaza di Malkit Shoshan.
Così facendo e continuando sulla scia del “Reporting from the front” di Alejandro Aravena, la Biennale assolve al suo compito: catalizzare stimoli da tutto il mondo, risvegliare l’immaginazione e offrire una piattaforma di conversazione che parte dall’architettura per abbracciare tutto il sapere di cui ha bisogno per ridisegnare il mondo.
Combinando ricerca storica e nuove tipologie, l'indagine di Studio Ossidiana si concentra sugli oggetti che agevolano l'incontro con gli uccelli. L'installazione mira a ripensare l'archetipo della gabbia come linguaggio fisico e non come recinto che, da forma di isolamento, diventa oggetto di mediazione.
Installazione esterna al Giardino delle Vergini, Arsenale
“Alive: A New Spatial Contract for Multispecies Architecture” indaga un'architettura in grado di favorire le comunità microbiche, essenziali per per il mantenimento di un ecosistema. Indica una nuova direzione per gli edifici probiotici e l'architettura multispecie realizzata con un nuovo materiale poroso e organico, che fornisce microclimi diversi per altrettanti tipi di microbi.
Beehive Architecture è composta da diversi modelli di padiglioni in scala 1:10 generati e prodotti dalle api mellifere in cera d'api naturale, qui usata come materiale strutturale. Le api eseguono calcoli architettonici multipli e molto complessi, dopo avere valutato i vincoli del clima locale, la grandezza dell'alveare e la ricchezza della flora circostante.
La ricerca di Enlace Arquitectura sottolinea la ricchezza delle dinamiche spaziali e culturali di un barrio di Caracas, Venezuela, attraverso la sua rete di spazi verdi: 1,75 ettari con licheni, cespugli ed edera che crescono spontanei nelle crepe dei marciapiedi e sui muri, ma anche orti e giardini con piante coltivate per cucinare, curare malattie e tenere lontani gli insetti. Il risultato sono un dizionario, un plastico e un libro che raccolgono le storie e la conoscenza sulla natura degli spazi aperti dei barrio. Conoscere la vita nei giardini è una premessa fondamentale di integrazione con il resto della città.
Le spore dei funghi raccolte sulle pareti dell'Arsenale, dopo essere state coltivate nel dipartimento di micologia dell'Università di Atene, ritornano a Venezia come un "giardino dei funghi". Invitano a una riflessione sulla complessità, la bellezza, l'invisibilità e l'ubiquità dei funghi, creatori e facilitatori della vita, resistenti come la roccia.
Questa installazione immersiva ridefinisce le idee di confine, scala e azione. L'elaborazione si basa sul monsone e utilizza dati climatici, lavoro sul campo e media immersivi per fare capire come i cambiamenti climatici e l'attività dell'uomo stiano aumentando l'imprevedibilità dei monsoni. La regione presa in esame non è definita dai confini dell'uomo, ma dal volo di una specie di libellula, la Pantala flavescens, che segue il monsone dall'Africa orientale al Sud-est asiatico.
La ricerca di FAST ripercorre la trasformazione di una piccola fattoria a Kutzazh, villaggio agricolo tra Gaza e Israele. L'installazione racconta 10 storie di vita quotidiana nella fattoria e collega oggetti banali (come angurie, sardine, sabbia) a protocolli burocratici e restrizioni imposte da Israele e violenza continua, a cui gli abitanti rispondono con azioni collettive di sopravvivenza, resistenza, mutuo soccorso e solidarietà.
La mostra collettiva curata da Caroline A. Jones, Hadeel Ibrahim, Kumi Naidoo, Mariana Mazzuccato, Mary Robinson, Olafur Eliasson, Paola Antonelli e Sebastian Behmann invita a un futuro inclusivo che si estende a tutti gli abitanti del pianeta: non solo esseri umani, ma anche animali e piante, aria, acqua, alberi e suolo. E si chiede quale potrebbe essere la posizione dei professionisti dello spazio per un futuro condiviso.
Nel padiglione israeliano, la mostra curata da Dan Hasson, Iddo Ginat, Rachel Gottesman, Yonatan Cohen e Tamar Novick esamina le relazioni tra umani, animali e ambiente. I protagonisti sono gli animali e una terra, la Palestina, trasformata dall'intervento umano con danni irreparabili alla fauna e flora locali.
Lo studio del comportamento animale è alla base del progetto di Patrick Berger, un padiglione in acciaio, legno e rami di alberi