Partendo dall’ambizioso titolo del curatore di stretta militanza MIT, “Come noi vivremo insieme?” – ammesso che vorremo iniziare a farlo – le avvisaglie non sono buone, il rischio di fare profezie destinate ad essere smentite oppure, se veritiere, a non essere ascoltate e portare sfiga a chi le ha emanate, è alto. “Uncertainty” (Incertezza) – titolo del Padiglione della Spagna – è certamente un termine più adeguato e indovinato per descrivere la condizione dell’architettura oggi. Il progetto del Padiglione spagnolo analizza e fotografa, in un pannello purtroppo molto defilato e poco visibile, al di là dell’ennesima seduzione dell’istallazione para-artistica, il quadro dei complessi e articolati ruoli e funzioni dell’architetto e dell’architettura in Spagna: ciò con un modesto, quanto utile quadro di analisi che racconta un ruolo in profonda mutazione, dove la stessa massa di architetti aumenta, differenziando gli ambiti di occupazione, dalla formazione a nuovi mestieri, in un mondo che proclama di voler essere sempre più green e sempre più o meno local, pandemia permettendo.
Temi messi in mostra secondo i cliché che imitano i linguaggi dell’arte, con istallazioni in cui gli architetti non sono stati particolarmente persuasivi. Tant’è che proprio gli interventi degli artisti veri, ospitati all’interno della mostra di architettura sono più efficaci e confidenti...
I molteplici temi messi in campo dal curatore sono “di tendenza” e molto complessi: al centro la fragilità della terra, tra distopie apocalittiche (poche) e utopie tecnologiche (molte). La terra delle risorse sempre più scarse, delle mutazioni geografiche demografiche, dei flussi migratori, della pervasività delle reti, un po’ di pandemia, la terra del post-human, della ipertrofia delle promesse tecnologiche: temi, tanti, che sono messi in mostra, purtroppo, secondo i cliché che imitano i linguaggi dell’arte, con istallazioni in cui gli architetti non si può dire che siano mai stati particolarmente persuasivi. Tant’è che proprio gli interventi degli artisti veri, ospitati all’interno della mostra di architettura sono più efficaci e confidenti con i temi (tra tutti il lavoro Aerocene già esposto sulle “mongolfiere green” di Tomàs Saraceno).
Salvo rari casi, manca l’architettura, da ritrovare in sporadici e quasi intimisti episodi. Tra questi, la piccola e modesta mostra di Rafael Moneo ospitata nel padiglione di Stirling; il palinsesto di modelli di architetture costruite del padiglione del Belgio, i disegni e i modelli (non i render) di Michele De Lucchi delle sue Stazioni, il Padiglione dell’Uzbekistan, per la prima volta a Venezia, con il progetto “Mahalla: Urban Rural Living”, rappresentazione di una ricerca su particolari modi di vita rurale, intima e di reale prossimità di comunità locali; la quadreria su come “non viviamo insieme” del Padiglione del Cile, il progetto di impossibile anastilosi di una casa giapponese smontata e trasportata a Venezia con tutti i suoi componenti e le memorie di chi l’ha abitata; l’uccelliera magica di Patrick Berger. Mentre l’occidente malato ancora cerca nella tecnologia la cura, alcune ricerche cinesi e dell’Asia, ancora intimamente appartenenti alla disciplina architettonica, si interrogano su come evitare di replicare i disastri del modernismo occidentale. Tra queste spicca il notevole lavoro sul sottile confine tra nostalgia vernacolare e contemporaneità a misura d’uomo di Meng Fanhao (+Studio) che ricostruisce un insediamento in forma di villaggio rurale.
Ma la mancanza di attenzione all’uomo e ai suoi bisogni, schiacciata dal fideismo nelle scienze dure, nella tecnica e nel loro marketing, è forse uno degli elementi più palesi di questa Biennale, e, forse, una delle ragioni della perdita di importanza dell’architettura nel tempo che viviamo. Coglie bene il problema il progetto curatoriale del Padiglione dell’Austria, che nel progetto “Platform urbanism” proclama: “Architette e architetti, urbanisti e urbaniste, autorità locali, cittadine e cittadini, stanno rapidamente venendo esclusi dal disegnare gli ambienti di vita futuri (e presenti, n.d.a). Sono stati sostituiti da sviluppatori e sviluppatrici di piattaforme che disgregano le forme convenzionali di spazi assumendo il ruolo globale di super-potenze della pianificazione”. Una “valle oscura”… (cfr . Uncanny valley, Anna Wiener).
Ne è plastica e inquietante rappresentazione, il collage di immagini stratificate di paesaggi, frame e brandelli di architettura e vita urbana, che rimanda alle apocalittiche figure di Jeronimus Bosch. Da Jeronimus Bosch alle uccellerie, immersi in un Medioevo barocco. Passeggiando tra le corderie e il Padiglione centrale, sembra di vivere all’interno che di nuovo medioevo tecnologico, altro che futuro, pieno di miniaturisti, di amanuensi, di alchimisti nei loro alambicchi, soggiogati dalla pura tecnofilia invece che da una sperata filotecnia. Tra l’altro alcuni esperimenti, dalle inquietanti forme messe in scena, rimandano a esperienze più o meno consapevolmente nostalgiche, proprie del modernismo organico di un’avanguardia visionaria, già attraversato nella seconda metà del secolo scorso ed evidentemente ancora non superato.
Passeggiando tra le corderie e il Padiglione centrale, sembra di vivere all’interno che di nuovo medioevo tecnologico pieno di miniaturisti, di amanuensi, di alchimisti nei loro alambicchi, soggiogati dalla pura tecnofilia invece che da una sperata filotecnia.
Questa tecnologia è espressione della dominante area di influenza culturale, di un contesto preciso di esportazione che è il modello ipertecnologico del MIT e delle sue università epigone. È in dubbio il ruolo sempre più pervasivo della tecnologia nella nostra vita, ma un approccio nuovamente umanistico al progetto ci sembra una risorsa necessaria, da ritrovare ed indagare.
È vero che pure Vitruvio diceva che l’architetto “deve conoscere l’astronomia se vuole costruire tetti”. Ma nel tentativo goffo di imitare o inseguire le verità di astronomi, biologi, ecologi, sociologhi geografi, economisti, il rischio che questa Biennale mette in scena è che l’architettura sia sempre meno utile nella società. Almeno se non riuscirà a riaffermare il proprio dominio sempre valido che consiste, come in pochi casi esposti, nella capacità di dare forma con il progetto a spazi nuovi e vecchi da abitare e da riabitare meglio. L’architetto oggi non è più archi-tekton, cioè primo artefice, ma figura competente nell’attività del progetto, all’interno di processi sempre più complessi di trasformazione materiale dell’ambiente che abitiamo. Il progettista / architetto designer è parte di un sistema circolare nel quale non è al centro ma è dentro la circonferenza, insieme ad altre figure si mescolano e interagiscono insieme.
Se capirà questo suo ruolo di cooperazione insieme ad altre competenze, che non significa pretendere il primato, forse potrà tornare ad essere una figura utile per la società. Se è vero che il compito dell’architetto è stato da sempre quello di dare forma, “sostanze di cose sperate”, alle trasformazioni in forma dello spazio fisico che abitiamo, dalla casa alla città, questo dominio potrebbe essere ancora oggi la prospettiva operativa su cui investire. Quali risvolti questa considerazione potrà avere sul tema dell’educazione al progetto è la sfida più rilevante, perché in fondo sembra evidente che il modello tradizionale impostato sulla organizzazione dei “saperi” di matrice idealistica che bollò i saperi tecnico-scientifici come “pseudoscienze”, ha paradossalmente determinato l’effetto dell’iperspecializzazione di oggi. Questo modello non é più adeguato e richiede un profondo ripensamento dei progetti formativi per una più incisiva cultura del progetto nella società. Ma questo è argomento di prossime sfide.
Immagine di apertura: Padiglione Centrale alla 17. Biennale di Architettura di Venezia. Foto Giulia di Lenarda