Il padiglione temporaneo di Ode to Osaka è un corpo pneumatico abitabile, un organismo che respira assieme al suo pubblico e funziona con l’intricata complessità narrativa di un gioco di scatole cinesi.
Ode to Osaka
Al Museo Nazionale di Oslo la ricostruzione – di Manthey Kula Architects – del padiglione progettatto da Sverre Fehn per l’Expo di Osaka del 1970, mostra quanto il suo progetto fosse avanzato: metteva in questione la possibilità di uno sviluppo indefinito con la grazia di un luogo per riflettere.
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- Ivo Bonacorsi
- 28 agosto 2015
- Oslo
L’architettura che lo contiene è quella del prezioso scrigno razionalista in cemento, legno e vetro, che Sverre Fehn aveva annesso nel 2008 al Museo Nazionale di Oslo. Un padiglione nel padiglione dunque, con un rimando esponenziale ai suoi progetti definitivi e realizzati che ne fanno non esclusivamente una ricostruzione temporanea per un progetto irrealizzato. Questa è un opera-ambiente, completamente smontabile e trasportabile, ed è più che la ridefinizione di una proposta e un omaggio al suo autore, scomparso nel 2009.
Funziona magicamente con la potenza evocativa di un ectoplasma, medium che materializza attorno alla sua figura, un oggetto clinico e la potenza della sua aura progettuale. Il lavoro di Sverre Fehn è punteggiato di padiglioni, basti ricordare quello della Biennale di Venezia, e anche di splendidi musei, esercizi di stile che gli hanno valso la reputazione di maestro del regionalismo modernista.
La mostra, pur ruotando attorno a una proposta rifiutata, include una ridefinizione critica del suo lavoro, attraverso il recupero di piani e documentazione a lungo dimenticati. Originariamente pensato dall’architetto norvegese per l’Esposizione Universale di Osaka nel 1970, avrebbe dovuto integrarsi negli spazi del Padiglione Nordico progettato dal danese Bent Severin.
Di quell’esposizione universale dal titolo futuristico “Progress and Harmony for Mankind”, si ricordano la gigantesca volta quasi immateriale del padiglione americano, prodezza ingegneristica dello studio Davis-Brody e la propensione a immaginare il futuro a portata di mano in termini di sviluppo indeterminato e con traiettorie altamente tecnicistiche. 64 milioni di visitatori in sei mesi di apertura, prima grande Expo universale in Asia, sviluppatasi sul piano di Kenzo Tange con una serie di realizzazioni architettoniche che si elevarono come lodi sperticate alle infinite possibilità dello sviluppo. Nella documentazione su quell’esposizione presente in questa mostra stride appunto il contrasto, con questa minimale ricostruzione analogica e funzionante del lavoro di Sverre Fehn.
Perfetta la realizzazione del padiglione ad opera dello studio d’architettura Manthey Kula, che nel suo candore e nell’ottica poveristica dei materiali riesuma l’esistenza di un anima oscura dello sviluppo. È la stanza di un tempio che palesa una coscienza critica e le distonie del progresso: l’annuncio della possibilità del disastro ambientale, l’inquinamento, la fine delle risorse. Il concept di questo spazio sembra proprio quello di creare una camera di decompressione e uno spazio di meditazione.
Il padiglione nordico del ’70 fu pensato infatti con grande intelligenza e in controtendenza alla retorica futuribile del tempo. Unici fregi per la facciata un segno + e un segno -. Un gesto semplice che pesava in anticipo sui tempi i pro e i contro, le due facce dello sviluppo. Il titolo della mostra ospitata nel padiglione, “Protezione dell’ambiente nella società industrializzata” era di fatto il controcanto all’apoteosi e all’enfasi di un progresso inteso come crescita indefinita. Con 72.000 immagini e proiezioni, di catastrofi ambientali, desertificazione e altri temi che sembrano usciti dall’agenda dell’ecosostenibile dei nostri giorni, si proponeva la sensibilizzazione dei milioni di visitatori, al problema delle risorse non infinite del nostro pianeta.
Ad appena un anno dall’euforia della conquista della Luna, Sverre Fehn intendeva probabilmente sprofondarci in un luogo fuori dal tempo con una sua atmosfera artificiale. Libero da ogni tipo di inquinamento estetico, riducendo la grammatica e i colori a una calda e avvolgente monocromia, appena strutturata dall’inaspettato disegno che la fa somigliare a una casa tradizionale giapponese. L’esperienza di uno spazio interno che contiene tutta la filosofia del suo modernismo poetico. Nelle parole dell’architetto “Il nostro futuro dipende dalle condizioni in cui si trova il nostro cielo decisamente fuori moda”.